domenica 28 febbraio 2010

Un Theta di città: Vernice

Un Theta di città: Vernice


Ora le pareti sono bianche, nuove, pulite.
La potenza di questa affermazione la capiscono in pochi, come è giusto che sia.
Io ringrazio la vernice, e il suo potere.
Ha cancellato le ombre, lo sporco, la vecchiaia e gli anni dalle pareti.
Ha cancellato i ricordi, i fantasmi, il dolore fra una parete e l'altra.
Si è servita della fatica, dei muscoli che urlano di stanchezza mentre il rullo va avanti e indietro a stenderla sul soffitto.
Si è servita della nostra voce, canti, risate e bestemmie mentre con una pioggia di schizzi ci ha resi più bianchi fuori e forse, per qualche ora, più neri dentro.
Si è servita del freddo, finestre aperte e aria e vento per asciugarla, per portare via il suo odore mischiato a vecchi ricordi.
si è servita dell'alcool, vino e birra fino a stordirsi per sopportare la fatica, per anestetizzare il dolore mentre combatti coi demoni una pennellata alla volta, una risata alla volta, una bestemmia alla volta, e distuggi tutto ciò che è stato per costruire ancora, una nuova vita energica e molesta sulle macerie di una vita consumata dal tempo.
La vernice ha fatto il suo lavoro, sulle pareti, fra una parete e l'altra.
Ora la casa è bianca, c'è silenzio, c'è pace.

venerdì 26 febbraio 2010

Miseranda umanità

Guardateli così come vi appaiono, una puttana d'alto bordo napoletana, un milanese maturo conciato come un ventenne da centro sociale e un giovane romano, elegante nel suo completo scuro, seduti ad un tavolo di un angolo di Roma dall'architettura fascista, a formare la più improbabile delle compagnie che uno stupefacente sole primaverile di fine febbraio potrebbe illuminare.
Guardateli meglio, più a fondo, per ciò che realmente sono, seduti silenziosi davanti ad un pasto privo di entusiasmo.
Guardate il giovane, con l'acciaio nascosto in bocca e in testa la rabbia per mille rivoluzioni.
Guardate l'uomo, con gli occhi spenti di chi ha la vita bloccata sull'unico binario rimasto, quello che porta alla fine, e in testa la rabbia di chi vorrebbe avere una vita da mordere con foga.
Guardate la donna, con i suoi gioielli vistosi, con i suo abiti costosi, con in testa lo schifo che i soldi non possono cancellare, e la rabbia di chi avrebbe voluto poter fare scelte diverse.
E ora, dopo aver visto ciò che sono, senza lasciarvi distrarre dall'inessenziale motivo per il quale una così improbabile compagnia si sia riunita, chiamateli, come faccio io, con il nome che gli appartiene: sconfitta, rabbiosa, miseranda umanità. 

giovedì 25 febbraio 2010

Scrivi dieci anni in un mese.

Bionda, come stai?
Dovrei chiedertelo. Ma non lo faccio, perché lo so io, com'è che stai tu. E' come sto io. Non si dice questo, di solito. Perché è di dubbi, che si smalta un rapporto. Non si ha certezza dell'altro, mai. Dovrei chiedertelo, ma lo so già, io, com'è che stai tu. Stai come me. Sei nettare ora e io lascio ogni titubare a chi non ha coraggio d'essere vino. Invece, come sei, come sai, a noi due, è saltato il tappo. Ed ora sai, come si urla e si strepita e si sta disordinati sulla vita, fuori dalla bottiglia. Ed era cosa che aspettavi, che aspettavamo. Ti scopro, Bionda, e capisco che ci fai, qui, nel mio bicchiere.
Versati, che io ti ubriacherò, è una promessa. Perché abbiamo lo stesso sapore, veniamo dalla stessa terra, dalla stessa uva. Non lo sapevo, ma ora che ti trovo, non ti chiedo più. Mi fido di tutto quello che non hai bisogno di dirmi. E' il dono che mi hai fatto. Ci facciamo nuovi, io e te. E non aver paura Bionda, ti sto soltanto dicendo, che ogni venticinque, è un numero giusto.

mercoledì 24 febbraio 2010

M'hanno detto che non sono sereno

M'hanno detto che non sono sereno.
Escludiamo la mia situazione personale che, si, al momento navigo a vista con una benda sugli occhi e non è la cosa più piacevole che si possa immaginare, e soppermiamoci un attimo sul concetto di serenità.
La serenità viene considerato un qualcosa a cui aspirare, un fine ultimo della vita.
Ma chi ha il diritto di aspirare alla calma, la pace, la quiete che a essa si accompagnano?
L'uomo maturo, dopo aver lavorato una vita, costruito una famiglia e reso i figli in grado di camminare sulle proprie gambe, solo allora ha questo diritto.
Il guerriero, dopo aver combattuto tutte le battaglie che poteva e doveva combattere, con che esiti non ha importanza, acquisisce questo diritto.
Ma io? Ma noi?
A venti, a trenta, a quarant'anni la serenità non ci deve appartenere neanche per sbaglio. Non in questa Italia. Non in questo tempo. Dovremmo essere guerrieri in lotta con tutto, per tutto; per un futuro migliore, per un paese migliore, per essere persone migliori. Incazzati, vivi, felici, alla ricerca, in dubbio ma mai, mai sereni.
Mai in quiete, seduti felici ad accettare la vita; mai fermi, acritici, mai passivi di fronte a quello che ci viene incontro.
La serenità, la quiete, la pace prima della pensione sono il male, la morte mentale, sono la stasi che porta alla perdita di significato di ogni singolo giorno da qui alla fine.
E quindi no, non sono sereno, e sono felice di non esserlo; oggi perchè sto demolendo e ricostruendo me stesso, cercando di trasformarmi in una persona migliore, ieri e domani perchè sono stato, e sarò, in lotta con il mondo, per renderlo qualcosa di più adatto a me, a voi e a chi verrà dopo, quando avremo raggiunto una serenità finalmente meritata.
E ora ditemi, vi sentite sereni? E vi sentite felici, di questo? 

sabato 20 febbraio 2010

Sesso, Paracetamolo e Rythm'n'Blues

Sesso, Paracetamolo e Rythm'n'Blues
di Danilo Cipollini

Sposami, Lara. Sposami qui e ora, mentre sono febbricitante, sposami in questo pomeriggio di nuvole. Sposami su questo letto. Sposami velocemente, sposami duro. Scopami.
Aprimi in due e fammi uscire da me stesso.
Sposami, Lara.
Vorrei avere una radio, ora. Un pc, un iPod, qualcosa. Qualcosa che rompa questo silenzio. Canta, Lara. Sposami, Lara.
Tanta la voglia di te che divento duro. Inizio a masturbarmi. Senza passione e senza fretta, come qualcosa di necessario. Vengo, e non mi interessa dove.

Mi alzo dal letto. Brucio. La febbre è ancora alta, temo. Vado in bagno barcollando e mi guardo allo specchio.
Cellerini nella mia testa rasata. Poliziotti in assetto antisommossa, in riga.
Le visiere dei caschi abbassate, le mani strette sui manganelli. Rumore di tamburi quando li sbattono contro gli scudi.
Iniziano a batterli anche contro le pareti del mio cranio. Mi sento sballottato, travolto, sconvolto. Mi sento nudo. Mi sento caldo.
Mi viene da cantare. Una vecchia ballata blues. Sale la musica dagli altoparlanti del mio cervello e io inizio a cantarla.
La canto a voce bassa, poi sempre più forte. E intanto rido.
Si sa, il blues non serve per far stare meglio te: serve per far stare peggio gli altri.

[c’era un pugile \ un campione del mondo \ Sonny Liston \ lui si allenava ascoltando una ballata blues, “Night Train”\ sempre la stessa, ossessivamente – ora capisco perché. Perché era come allenarsi sotto colpi continui, allenarsi con la sofferenza nella testa e nelle mani \ una cosa del genere rende insensibili al dolore, ti ci immerge tanto dentro che ti rende insensibile].

Rido mentre canto forte il mio blues.

E i cellerini nella mia testa accusano il colpo.
Prima smettono di battere i manganelli. E io canto.
Poi iniziano a contorcersi. E io canto.
Infine iniziano a cadere a terra, in preda a spasmi mostruosi. Canta, Lara. Canta.

Il mondo si rovescia mentre chino la faccia in avanti e vomito nel lavandino. Vomito fuori tutti i miei carcerieri, poi apro l’acqua.
Mi sciacquo la faccia, la testa, la nuca. Vomita, Lara.

L’acqua che scorre sulla pelle del mio cranio è un piacere unico. Gocce si insinuano nelle pieghe della pelle del mio collo, scendono verso la schiena, bagnano ancora il pigiama già umido di sudore.
Sudami, Lara.

Torno a letto, Lara non c’è. Non c’è ancora. Non c’è da mesi.
Lara non ci sarà. Sposami, Lara. Scopami, almeno.

Crollo indietro sul letto sfatto e umido. Nel bagno l’acqua continua a scorrere, il lavandino semiostruito non riesce a farla scorrere via. L’acqua sale e lo riempie. Poi tracima, deborda. Poi scorre sul pavimento bianco del bagno, poi filtra sotto la porta, poi invade la mia stanza da letto (sposami, Lara), poi scorre sul parquet, lo bagna e lo rende lucido, poi continua a scorrere, e trascina con se i resti del mio rigetto, coriandoli dei miei cellerini (amami, Lara).
Non c’è musica in questa stanza. Peccato, sarebbe bello ci fosse musica. Un po’ di Blues, Lara, da dedicarti, per farti crollare, per farti contorcere, per vomitarti, dovunque tu sia.
Agonizza, Lara. Agonizza.
La fronte mi scotta di più, poggio un piede a terra, fa CIAK CIAK nel velo d’acqua che copre il pavimento.
Ai 40 gradi la febbre da allucinazioni. Se quest’acqua è un’allucinazione, è un’allucinazione incredibilmente umida.
Apro gli armadietti e frugo, scaravento pezzi di carta e calzini puliti, e fiori secchi e dvd a terra, cadono con un rumore bagnato, un PLOF morbidissimo.

Niente più medicinali, da nessuna parte.
Ci fossi tu, usciresti a comprarmeli, Lara. Ma non ci sei.

Ed è qui che scoppio a piangere, e cado col culo a terra, a mollo nell’acqua che continua a scorrere fuori dal mio bagno. Fermo, al centro della mia stanza. Distrutto.
Non musica. Non ho medicinali. E, soprattutto, non ho te.

Non è questa la vita che volevo, vaffanculo. Non lo so, forse è tardi per rimettere le cose a posto. Posso comprare delle medicine, certo. Posso mettere della musica, sicuro!
Ma non posso riavere te. No, mi sa di no.

Questa vita ormai è andata.
Nella prossima, voglio sesso, paracetamolo e Rhytm’n’Blues.

venerdì 19 febbraio 2010

La Fame - Prima Considerazione

Scrivere, è per gente di merda. Come me. Scrivere non da. Nulla. Toglie e raspa e ti spoglia. E alla fine ti trovi nudo, sulla via di tutti i pensieri che hai riciclato, sporco d’ossigeno. Noi che scriviamo, non andiamo incontro alla gloria, ai soldi, alle donne affascinate da chissà quali costruzioni grammaticali. E’ ingrato, quasi per tutti, mettersi in stampatello. Quasi per tutti. Non nego, che mettere in fila due parole, può fare un certo effetto, qualche volta, e ti può dare una mano, con le donne. Ma il problema è più profondo. Il fatto è che non puoi far finta di leggere. Se hai un testo davanti, anche nella maniera più distratta che hai, scorri i caratteri e li ingoi, inchiostro dopo inchiostro. Un testo, non è un quadro. Non lo puoi guardare di sfuggita e far finta d’averlo osservato. Un testo, non è una musica, cui puoi annuire anche con le orecchie tappate. Chi ti legge, in una qualche maniera ti assimila e deve metterci dell’impegno. Anche minimo, ma deve mettercelo. E non è nemmeno una questione di capire o apprezzare. Deve impegnarsi. E non sono poi in molti disposti a farlo. A farlo per un ipotetico scambio non equo. No, non lo fanno, si annoiano nel doverlo fare, e questa briga, non se la prendono. È per questo, che ci chiamano scrittori e non artisti. Al massimo, finiscono per chiamarci poeti. Che se ci pensi, il fine è sempre quello, sia che tu usi lo scalpello, il pennello o la macchina da scrivere. Ma l’impegno è diverso. Noi, gente di merda, abbiamo bisogno di starci, in quel che scriviamo, non ci possiamo permettere altro. Basiamo la forma sul concetto e l’istinto che supponiamo, è vittima di uno stare precedente, ben radicato, cui non ci si può opporre. E poi, detto francamente, tutti possiamo essere scrittori. Tutti nasciamo scrittori. Non c’è bisogno del fisico, non usiamo davvero le mani per far quello che facciamo, non abbiamo bisogno davvero degli occhi, o delle orecchie. È tutto nel cranio. Sono pensieri e tutti pensano. Tutti sono scrittori, anche se non lo sanno. E per questo, chi ti legge, si prende un impegno. L’impegno di dire che fra tutti (tutta la popolazione mondiale cosciente), viene a leggere proprio te. Ma questo non lo sa. E non lo so nemmeno io che scrivo. Che poi, io nemmeno mi ci reputo scrittore. Forse un giorno. Non ora. Perché sono pochi, quelli bravi, che si fanno capire per bene. E se consideriamo quelli bravi e pure fortunati, allora, diamo una bella tagliata al numero. E in quel numero, io non ci sono. Non ancora. Scrivere è per tutti. E noi, che poi lo facciamo anche su carta, siamo meno fighi, di chi scatta una foto. Cazzo, siamo molto meno fighi. Scrivere, è un’inculatura non da poco. A me va bene così, però. Perché penso da sempre. Da prima del primo vagito, da prima che imparassi a dire cacca, o fame. E poi, quando avevo otto anni, m’è preso a vomitare tutto sul foglio, quello che avevo in testa. È questo che faccio, quello che voglio fare. Brutta storia, perché ve lo dicevo, che ti spogli. E quando ti spogli, non ti aggrappi più a quelle velleità che ti tengono su. Sei solo, sul foglio. Quindi, grazie a te, sprovveduto che mi leggi, in un giorno qualsiasi della tua vita. Ti stai impegnando a dire, che in questo cazzo di mondo, in un giorno qualsiasi della nostra vita, ci stiamo scegliendo. Ma questo, noi non lo sappiamo, ne lo sapremo mai.

Scrivo per mangiarmi vivo. È questa la fame.

mercoledì 17 febbraio 2010

Resisti, dolcezza, che non ti vengo a salvare (ho altro da fare)

I conigli non hanno voglia di mangiare. Quando stai fermo e sudi lo stesso, non è il caso che tu corra. Rimani. E goditi l’incendio. Così penso a quanto tutto sia passato sotto le mie gambe, senza che avessi la voglia di chinarmi a vederlo galleggiare lungo un fiume di ricordi pisciati via, smaltiti come tossine. Mi metto in posizione per capirci meglio: con l’occhio guercio mi vengono a noia i sapori di un sacco di gente, di altrettante facce. Quel vivere diverso, c’era da starci aggrappato sicuro, per non scivolare, finendo col culo per terra. Non che poi ci fosse da scriverci, su una vita così. Ma lo stesso, mi rimane difficile prestare il silenzio a quelle parole che mi stanno in gola e saranno le palle che girano, a farmi questo effetto. Quando sono nato, mi pigliavo meno sul serio e contavo solo sulle dita, senza spossare tutto il senso di compiutezza che galleggia intorno alle menti semplici. Quando poi ero ancora bambino, prendevo fuoco nel rosa delle nuvole, mi lasciavo scappare risate per meno di un pugno. Vibravo forte per impedire che i consigli buoni mi dovessero sorreggere, e qualche volta sono anche partito, cavalcando selvaggio la mia testa, restaurando immagini che nemmeno Dio s’è preso la briga di inventare. Era così che diventavo ragazzo, due passi alla volta e tre amori al giorno. Stonavo, senza scherzi, su tutte le frasi fatte. Violavo il puzzo di chiuso fumando finestre di altrove. Chiamavo dolcezza con un saluto spartano e loro scioglievano i cani di risposta, ma andava bene così. La mezzanotte era un poster in cui fermarsi a cominciare tutte le corse, per scappare da quegli sguardi appesi ai finestrini degli autobus, da tutti quei sentimenti scritti in minuscolo sulle tempie degli affaccendati, all’emotività defecata e versata in bicchiere, da prendere dopo i pasti, ma a stomaco vuoto. Fugare ogni dubbio in settantamila caratteri, non mi serviva altro. Con la cartapesta ed il fango mi misi a giocare, ed una volta sporco di sincerità, mi accorsi che quello che avevo costruito, non lo potevo più disfare. Allora vendetti tutto per potermi comprare un vestito ed un futuro su misura, quello che mi potei permettere fu un biglietto di sola andata verso il crollo dei miei nervi, sotto il suono costante dei miei no,

Oh, Dio no.

Tornò da me il tempo e quando lo rifuggii, mi accompagnò per mano fino ad essere un uomo. La testa era un pallone sui cui non potevo posare un rasoio, ed era una cosa, che in fondo mi piaceva. Ero diventato l’orlo. Colmo ed arreso, sputavo nella botte, aspettando l’ineluttabile, in un sorriso appena in odore, sottointeso ed indolore. Credo fu allora che smisi di chiedermi cosa avrei potuto fare per mettere un piede sullo stipite, prima che qualcuno chiudesse la porta. Fu come starsene senza pantaloni su un elicottero ad alta quota, sul bordo del portellone aperto, mani allargate in un abbraccio al cielo ed occhi socchiusi, a pisciare su quello che c’era di sotto. Su chi conta la vita con i sabato sera, su chi invece lo fa con i denti che ancora gli rimangono in bocca, su chi allaccia tutti i bottoni che ha sul petto. Una sensazione tonda e piena di felicità, lasciando alle miserie il tempo di trovarsi un rifugio. Lo so, lo so che c’è un uomo solo per ogni uomo che c’è sulla terra, lo so, che c’è un orizzonte per ogni sguardo. Ma non che importi poi molto, ora che tutto è tornato dove era iniziato, con me sdraiato sulle crisi di un tempo. Accarezzo il pelo delle mie bestie nere, e canticchio loro la ninna nanna dei piccoli idioti, a pizzichi sottili. Ora che ho visto tutto quello che è stata la mia vita, ora che sento il profumo della cenere che il libeccio si porta dietro, ora che vedo le fiamme della mia casa allontanarsi metro dopo metro, con sotto il braccio la gabbia delle ultime cose. I conigli non hanno voglia di mangiare ed io non ho voglia di mangiare loro.

Un Theta di città

L'avevo annunciato qui, e come mio solito, ho mantenuto il mio proposito.
Da ieri è attivo questo blog qui, "Un Theta di città", tutto mio, dove finiranno tutti i fatti miei che su questo blog qui non ci possono stare, e vi permetterà di seguirmi nel percorso che porta da provinciale a cittadino, e da bamboccione a uomo adulto e indipendente.

venerdì 12 febbraio 2010

Come nell'85

Oggi a Roma nevica, come nell'85.
E Bertolaso va a puttane, come l'Italia dall'85 o giù di li.
Nell'85 avevo tre anni, giocavo con le palle di neve e me ne sbattevo le palle di Bertolaso e dell'Italia, che era un concetto ancora molto fumoso.
Oggi gioco ancora con le palle di neve, e volentieri me ne sbatterei ancora le palle di Bertolaso e dell'Italia, solo che mi sento sbattere sulle natiche le palle di Bertolaso e dell'Italia, e quindi mi risulta molto più difficile.

giovedì 11 febbraio 2010

IoNonTremo legge @Simposio

Informazione di servizio: questa sera ore 21.30 presso "Simposio", a San lorenzo (via dei Latini 11) c'è una serata organizzata dagli Editori Viktor.
Alcuni scrittori leggeranno loro racconti, e in rappresentanza di Tetrapiloctomia ci sarà IoNonTremo.
Per chi volesse passare a fare un saluto... Ci si vede lì stasera.

lunedì 8 febbraio 2010

Mentolo

Aria gelida e un forte odore di mentolo. E le lancette dell'orologio che iniziano a correre al contrario per tredici anni.
Era carnevale pure quel giorno, e come oggi quel giorno l'aria sapeva di mentolo ed era gelida.
C'era musica quel giorno, colori, maschere, migliaia di persone e aria di festa.
E noi, non più bambini, ragazzi nemmeno per sbaglio, a festeggiare dimenticate ricorrenze pagane, liberi di liberare e lasciar fare la natura fastidiosa propria della nostra età di mezzo.
Può il ricordo di un pomeriggio tornare, dopo tredici anni, a raccontarti la vita che stai vivendo? Ne ha il diritto, oggi?
E noi stavamo li, con due vecchie felpe sotto la giacca di jeans, che la giacca buona proprio non era il caso, a tremare di freddo, e a rincorrerci, molesti, in una mischia senza regole, con, come armi, bombolette di schiuma da barba con il tappino modificato; schiuma al mentolo, rigorosamente.
Nessun pensiero, nessuna regola, ora stretti a coorte, ora uno contro l'altro; ora guardinghi, che il servizio d'ordine era in agguato, ora incoscienti, presi dalla frenesia della lotta.
No, oggi non dovrebbe poter avere questo diritto, ma i ricordi, lo sai, vanno e vengono, liberi e selvaggi come gitani.
E poi, con il passare delle ore, la battaglia perdeva di intensità e di significato, mentre le armi si scaricavano e i guerrieri, uno a uno, si ritiravano, stanchi ma felici.
E restavamo in pochi, stretti su una panchina, fradici di sudore e schiuma, a sentire gli aghi del freddo che ti si infilavano sotto la pelle.
E c'eri tu, stretta accanto a me, a rubare calore dal mio corpo, con i capelli trasformati in un'indefinibile groviglio al mentolo, le guance rosse per il freddo e la fatica, e quegli occhi verdi che mi toglievano il fiato. E c'ero io, stretto accanto a te, a fare sbuffi di vapore bianco dalla bocca, con il cuore impazzito, con le parole che mi si incastravano in gola.
Ridevi, ridevo, costruendo insieme un ricordo che il tempo avrebbe dissolto, almeno fino a oggi; e io morivo, ridendo, guardando i tuoi occhi verdi, che non guardavano me.
E oggi sei ritornata su, con l'aria fredda e l'odore di mentolo, senza nemmeno un nome, che il tempo s'è portato via anche quello, a raccontarmi una storia che non voglio sentire; tredici anni c'hai messo, a tornare su, a raccontarmi la nostra storia, proprio oggi, che fa più male.

La vera falsa storia dei Blue Machine

Salamandra ha da battere il tempo giusto, sennò lo picchio. Per noi che da un po’ stiamo da queste parti è normale vederlo partire, tre piatti alla volta verso un dove che sa solo lui. Rulla e controtempa che si sente Dio; fa tutto un frastuono di TUM-PA, poi ammazza il crash e cerca di violentare il charlestone, Buddah lo strafulmini. Non ti segue, non ti sente, poi quando smette, sdenta un sorriso sudato e noi, sempre noi, fermi a guardarlo riposare le mani sulla bottiglia di Romanella, quella dolce, arrendevole, miserabile, arrivata qui per pochi spiccioli, sacrificati alla causa. Onore a loro.

-‘Tacci tua, Salama'.

Più lo guardo più m’accorgo che il suo miglior talento è non avere talento. E questo mi fa felice, perché co’ noantri ce sta a pennello. Io da par mio sguiscio sulle corde della mia sei-gemiti, che continua a grugnire e lamentarsi, ma non scappa mai. Spavento gli astanti e do la colpa al jack del pedale per ogni tuono che spruzzo a ciel sereno, poi se bestemmio, gli altri ci credono pure. Gelli tira su uno starnuto e prende tre note in una, fa la mano morta all’Hammond che a quanto pare ci sta pure, visto il suono lungo e muto che fa. Ci sbrighiamo nei quattro quarti, prima che Salamandra ricominci, sfioriamo quasi il tempo, un paio di volte, e il Vecchio suona quel basso che non lo sente nessuno, ma mentre lo vedo in playback mi pare quasi sia bravo, quindi alzo ancora un po’ il mio volume, sia mai che se ne accorga. Franz stura la voce a forza di tabacco, che Venere gli manca. Ammicca al posa cicche e urla al microfono che o si fa come dice lui, o non si fa. Così funziona un gruppo. Lui si inasprisce piacione vicino l’asta, da uno sguardo a quelle li che sono venute a guardare. Io avevo detto che non le volevo, che mi deconcentrano, che fanno solo confusione. Allora Franz fa finta di saperne qualcosa e tira fuori il discorso che s’è imparato, tutto sul fatto che Bla bla bla. Mica l’ho mai sentito, io, tanto che sotto lo scherzo con un Peow sottile in Mi cantino. Salamandra, se c’è da star zitti, invece, prova la grancassa, si la grancassa, quella che da cinque anni si trova sempre nello stesso posto, quella che da cinque anni suona sempre uguale, quella che probabilmente per un altro quinquennio continuerà a suonare uguale. Ma si sa che i batteristi son stronzi. Franz si innervosisce, fa per andarsene, ritorna, sgrida, se ne rivà, poi a pagina due, da copione torna e comincia a fare sul serio. La scena serve a far smettere a quelle li all’angolo di giocare con lo smalto e guardarci un po’ di più, a far capire loro che a noi, piace far finta di prenderci sul serio, qui dentro. Che ci sentiamo già grandi, prima ancora di cominciare. Allora si riattacca, e se siamo spaiati e goffi lo copriamo col rumore, mica per ridere. Che i Pink Floyd ci maledicano, penso un poco. E poi Hendirx, i Black Sabbath e tutto il Metallo che viene dopo. Franz s’arrocca, sale sulle scale di note e ci guarda, grattando via il silenzio dallo stomaco, puntando il suo misfatto verso l’apice delle nostre costruzioni. E tutto è come deve essere e tutto si riconcilia, nella sua incoerenza. Gli sbagli sono suoni che percuotiamo e innalziamo, ebbri ed insaziabili, giriamo attorno a questo falò stridente, invocando la pioggia, noi che siamo gli ultimi, con orgoglio rimaniamo tali.

[

Poi venne il palco e da lassù vedevamo le volpi-rosse-doppio-malto, che non avranno il nostro scalpo, poche e disinteressate; più in la quelle che non volevo in sala prove. Quando Franz s’appoggiò al gelato girammo forte il volume e nel vuoto pieno ci tuffammo, col pensiero che cadere, era problema d’altri.

]

Dedicato a tutti quelli che si sono ubriacati e divertiti in una sala prove.

venerdì 5 febbraio 2010

Tetrapilocronaca #2, ovvero: Midnight in Chelsea.

Tetrapilocronaca #2 ovvero: Midnight in Chelsea

“Nessuno mi chiede favori, nessuno cerca un salvatore, sono tutti troppo occupati nel salvare me. E’ la mezzanotte a Chelsea.”.

Così Bon Jovi in una sua canzone un decennio e spicci fa (1997). La aggiornasse ad oggi, dovrebbe probabilmente modificarla sensibilmente.
Ci vedrei bene un “Nessuno chiede favori, quasi tutti cercano un legale, qua c’è una che fa un po’ troppe pompe. E’ mezzanotte, a Chelsea”.
E, come dicono nel sud del nostro paese, “Cchiù scuro è’ mezzanotte, nun po’ fari”.

Riepiloghiamo: Wayne Bridge è un calciatore professionista. Attualmente gioca per il Manchester City ma prima giocava per il Chelsea, appunto.
E’ fidanzato da qualche anno con la signorina Vanessa Perroncel

Hanno anche fatto un figlio, pensa tu.

Fin qui,niente di nuovo sotto al sole: il bel calciatore, la bella modella. Già visto. Già sentito.

Poi, venti giorni fa, una notizia, un “rumor” come dicono gli inglesi (e quindi a Chelsea hanno detto così: rumor) : John Terry, capitano del Chelsea e della Nazionale Inglese, ha un amante.
Sembra, non si sa, potrebbe essere, ma te pare?, forse è, no no, è proprio lei: Vanessa Perroncel.

Porca zozza. Ma te pare? Proprio con la donna del tuo compagno di squadra, e amico. ‘A John … te possino!

Scandalo.
La moglie di Terry lo lascia. Bridge s’incazza e si ritira nella residenza in campagna. Lacrime, flash,avvocati a rotta de collo, i tabloid impazziscono.
Il Dio del Gossip compie il miracolo, anziché i Pani e i Pesci moltiplica i rumors e, con essi, le lacrime.
La signorina Perroncel è una donna molto attiva. E AMA Chelsea più di quanto non la amasse Bon Jovi. Oltre a Bridge e Terry, sembra sia andata a prendersi un caffè in orizzontale anche con qualcun altro. Adrian Mutu (quando militava nel Chelsea), Ejdur Gudjohnsen (indovinate un po’? Giocatore del Chelsea), un terzo compagno di squadra il cui nome però non è ancora stato fatto, e addirittura, sembra, AVRAHM GRANT, ex allenatore (del Chelsea, manco a dirlo), che nel frattempo ha ben pensato, pochi giorni fa, di farsi trovare in flagrante in una casa d’appuntamenti a Southampton.


Ed è qui che capisci che il calcio italiano non può più competere col calcio inglese: noi cosa abbiamo per rispondere?
A fronte di Del Piero col suo uccellino, qui c’è una che di uccellini se n’è presa na voliera intera.
A fronte della Ferilli che s’è spogliata in topless per lo scudetto della Roma, qui c’è una che per tirare su il morale della squadra ha fatto servizi a tutti, praticamente, inclusi i raccattapalle.
Noi ci scandalizziamo per un calciatore che pippa un po’ di coca, loro ti sfoderano un casino che al confronto Beautiful è RadioMaria. Alla facciaccia del “Niente sesso, siamo inglesi” di Dorelliana memoria.

E' come nel campo della musica: noi attacchiamo con Baglioni, e loro ci rispondono con Bon Jovi… Che alla fin fine, aveva ragione: succedono cose strane, a mezzanotte, a Chelsea.

mercoledì 3 febbraio 2010

Idrogrammatologia 6: In cucina la sequenza è tutto.

In cucina la sequenza è tutto.
E no, non venirmi a parlare della qualità degli ingredienti, della passione, dell'inventiva.
La sequenza è tutto, punto.
Pentola, acqua, ebollizione, sale, pasta, qualche minuto, scola, punto.
Sposta solo una singola parte della sequenza qua sopra, e se ti va bene hai fatto uno schifo; se sei particolarmente distratto e hai mischiato la sequenza nel modo sbagliato forse è il caso che chiami i pompieri.
Poi si, mettici la migliore pasta del mondo, il sale del Murray River, acqua di sorgente scozzese, usa una pentola con un centimetro e mezzo di fondo, assaggia spesso, sicuro che ti esce una pasta da dio.
Ma stai facendo un cazzo di piatto di pasta, e a guardarti li che te lo cucini in mutande e ciabatte, credo che anche con quello che trovi al supermercato sotto casa puoi ottenere un risultato più che soddisfacente, addirittura ottimo, se segui attentamente la sequenza.
In cucina la sequenza è tutto. E nella vita è uguale.
Prendi due tizi a caso, magari uomo e donna così la facciamo più semplice; prendili di quelli che a fargli rispettare la sequenza rischiano pure di invecchiare insieme. Ora metti caso che lui è sbronzo, sbaglia la sequenza, e gli fa proposte oscene prima di chiederle come si chiama. Dieci a uno lei lo manda a quel paese, e tanti saluti al futuro insieme, o alla nottata divertente, o quello che è.
Ora invece prendi la coppia peggio assortita che ti viene in mente, una di quelle coppie che guardandole non puoi proprio fare a meno di chiederti: uno, lei che ci trova in lui e due, lui come c'è riuscito, che da come lei lo guarda pare vedere un adone e non lo hobbit che vedono tutti gli altri intorno a lei.
E il segreto, anche qui, è che la sequenza è tutto, nella vita come in cucina, e quell'hobbit la, accompagnato da una dea dell'amore, la sequenza l'ha seguita tutta, puntiglioso, in maniera maniacale.
Qell'hobbit ha imparato quello che c'era da imparare, ha chiesto il suo nome ed ha detto il suo, ha saputo attendere, ha fatto tutte le mosse che era il caso di fare e quando è stato il momento ha saputo ascoltare i giusti consigli; e la sequenza, ovviamente, l'ha premiato.

Questa cosa qui m'è venuta fuori perchè, a quanto pare, trasformerò i fornelli in cattedra, che c'è qualcuno a cui non bastano gli auguri, ma servono decisamente lezioni di cucina, e a me che piace giocare tra i fuochi, le spezie e gli aromi, non potrebbe farmi più piacere.

Schiuma

SCHIUMA
di Danilo Cipollini

In questo cesso c’e aria viziata. Viziata, viziata, aria viziata. Modo di dire del cazzo, “aria viziata”. Me la immagino che batte i piedi perché non vuole andare a dormire. Come me, che non voglio andare a dormire e trascino le ore in questo pub mettendo in fila le birre sul bancone.

Ma la birra che bevi prima o poi devi farla uscire, ed ecco come sono arrivato dove sono ora, in questo cesso - in questo cesso, in questo cesso c’e aria viziata e scritte sui muri – come in ogni Cesso Pubblico che si rispetti, aria viziata e scritte sui muri, non c’è scampo – e io qui, al centro, con la testa che gira parecchio, una mano appoggiata al muro per fermare il mondo, l’altra sul fianco, e il mio amichetto del piano di sotto fermo, in attesa dell’ispirazione per fare quel che s’ha da fare e tornare a allineare birre sul bancone.

Alzo gli occhi. “Mario ama Jo”. Buon per Mario.
Oddio, buon per Mario non lo so. Magari Jo non ricambia. E me lo immagino, il povero Mario, finito qui a affogare nella birra la delusione d’amore, e alla fine qui, in questo cesso, a respirare l’aria viziata e a scrivere col pennarello nero il suo desiderio frustrato lì, in alto, a destra. Povero Mario. No, decisamente, non è bene per lui. Buon per Jo, questo si. Ecco, questo possiamo dirlo. Buon per Jo.
Il tempo passa, lo stimolo no ma l’ispirazione alla spinta non si fa viva, quindi lascio lo sguardo randagio sul muro. Qualche centimetro sotto Mario, pennarellone rosso a punta quadrata, “Forza Roma”. Un po’ retrò, un po’ anni settanta, ma ci sta. Chiudo gli occhi e mi sforzo di immaginare la mano che ha tracciato quel segno. E perché, soprattutto. Perché. Scarto un paio di facce che mi vengono in mente e alla fine mi fisso su un ragazzetto con la boccia e gli occhi azzurri, il naso un po’ grosso, ubriaco da far schifo, ma di quell’ubriaco felice, non preso a male: felice.
La sua squadra del cuore ha vinto e lui è venuto qua a festeggiare. E ce la voleva dire la sua felicità, anzi: ce la voleva scrivere. Mi domando se farà così sempre, anche per le altre cose, in futuro. Me lo vorrei immaginare fra quindici anni, in giacca e cravatta, che scrive “Oggi è nato mio figlio”. Oppure “Ho finalmente fatto pace con mio padre dopo quarant’anni di incomprensioni”. Sarebbe fico. Sul serio.
Piscio. Finalmente. Ed è una liberazione. E’ una specie di orgasmo, un orgasmone, un orgasmissimo. La cosa giusta al momento giusto. La Cura giusta, davvero. Qualche schizzo ribelle probabilmente scappa e va a incasinare il fondo di questo bagno. Non ci vuole un genio per immaginarsi che lì sotto le mie gocce saranno in buona compagnia.
Ubriachezza e mira non vanno molto d’accordo, e in un pub la prima di norma soverchia la seconda.
Mi ci vuole sforzo, giuro, per impedirmi di soffermarmi sul party di pipì che si sta tenendo li sotto. Sforzo.
Buon Dio, la mente d’un ubriaco si incastra su cose terribili. Mi impongo salvezza, mi riallaccio e mi giro, pronto per uscire.Già pregusto la schiuma della prossima birra.
E l’occhio mi cade su una scritta, proprio sulla porta. “Carlo, bisex, faccio tutto quello che vuoi”. E un numero di telefono.
Ciao, Carlo. Piacere di conoscerti, Carlo, che sei venuto qui una sera e hai trovato la voglia e il tempo di scrivere questo. Ci deve essere un motivo per cui lo fai, Carlo. E io voglio vederti, Carlo, voglio immaginare la tua timidezza sbriciolata dall’alcol, i freni inibitori che saltano, e mentre la tua ragazza di là ride e scherza coi tuoi amici tu che tappi la bocca alla tua disperazione e fai questo. Che non è proprio il massimo della vita, Carlo.
Davvero farai tutto quello che voglio, Carlo? E allora ascolta me… Rispettati. Questo è quello che voglio, che tu ti rispetti. E, l’hai detto tu, farai tutto quello che voglio, no?
Comincia col lasciare la tua ragazza. Parla coi tuoi amici. Fai quelle analisi che rimandi da un po’, prenditi quel tempo che volevi. Poi parla coi tuoi genitori. E’ ora mi sa.
Che ti prende, Carlo? Non sei più così sicuro di poter fare tutto quel che voglio? Pubblicità ingannevole eh? Capisco. Mi spiace Carlo.
Buona serata, esco, torno a bere.

Davanti al bagno c’è uno che aspettava il suo turno. Mi guarda come a dire “era ora” e si avvia verso la porta che ho lasciato aperta e ci incrociamo appena, passandoci affianco.
Afferro la maniglia della porta esterna, quella che mi rimanda alla sala, quella che mi rimette fra la gente. Mi fermo.
Torno indietro. Afferro la spalla del tipo proprio mentre sta per sparire dietro la porta del mio cesso con l’aria viziata e lo scaravento fuori.
Miagola un “MACCHECCAZZO SUCCEDE?”. Tutto attaccato. Rabbioso. Urgente.
Non ci faccio caso. Entro e chiudo la porta alle mie spalle.
Fanculo, Carlo. Fanculo.
Estraggo una penna dalla tasca, è una banale Bic nera, non scriverà molto. Dovrà bastare. Basterà.
E mentre da fuori l’energumeno inizia a bussare, qualche centimetro sotto Carlo e la sua pubblicità ingannevole scrivo:
“Caro Carlo,
no, non ci conosciamo. Non lo so chi sei. Volevo dirti… Solo questo:
quando uno si lava, può farlo essenzialmente in due modi: tanto bagnoschiuma e poco strofinio, o tanto strofinio e poco bagnoschiuma. Il primo modo regala più profumo alla pelle, ma meno pulizia vera. Il secondo costa più fatica, fra l’altro, ma lascia puliti, puliti sul serio.
A me piacciono le cose che sanno più di strofinio, che di bagnoschiuma. Mi piacciono al punto tale che stasera sono qui, e sono ubriaco, per felicità. Perché dopo anni di pessimi rapporti finalmente ho trovato una persona speciale, speciale davvero. Strano no? La gente di solito si ubriaca per gli amori che finiscono. Io lo faccio per quelli che cominciano.
Non è da un numero sulla porta d’un cesso che cominciano gli amori, Carlo.
Non è bombardandosi di bagnoschiuma che ci si sente puliti.
Strofina forte ragazzo mio”.

La Bic sparisce in tasca. L’energumeno ha smesso di bussare, penso se ne sia andato. Magari starà protestando col titolare del pub.
E’ il momento migliore per un’altra birra

martedì 2 febbraio 2010

Il mio mostro migliore

E’ tutta una questione di prospettive. Essere bruciati come ossigeno, o bruciare perché ossigeno. Senza libertà d’opinione, essere presi sgraziatamente e gettati di peso nelle nostre orbite atomiche, leccando il cambiamento, stimolandolo, nella concitazione degli orgasmi che salgono gutturali per la trachea, fino a morire, stridenti, a mezz’aria. Per questo. Per quando finirà. Per questo, muovi il tuo elettrico. E allora, amico mio, scopati la fiamma, bruciati il cazzo ed i palmi, rotolati nella brace e poi spegni le ultime scintille con gocce d’occhi, se vuoi. E’ quello che muove il tuo elettrico. Perché non siamo pietra ed il tempo ci prende ogni giorno a calci in culo, spingendoci in avanti. E, allora, non rimanere a guardare. Vomita il tuo corpo claudicante sulla pista e danza e cadi. Ed io riderò di te, prima di tenderti la mano. E sarà così che faremo finta che le cose debbano per forza esser prese per quelle che sono. Sarà quel pavimento, il tuo amore crudo, fatto di nerbo e muscolo (sarà una cosa vera, ci puoi giurare), e ossa sparse ad indicare i fumi di domani. Smettila di imparare e lecca quella fica di fuoco. E’ imparando che si commette peccato, è imparando che si sbaglia. Scrivine. E quando farà troppo male la lingua, ci metteremo sopra del rum con ghiaccio, ma lasciando nel frigo il ghiaccio. Balla, amico mio, balla. Perché è di questo elettrico che siamo fatti, è inutile negarlo. Senza apprendere, ricominceremo. Perché ci crediamo, noi, nella circolarità delle cose.

Sciamani 5 di 5: sentendo di stare perdendo qualcosa di speciale che a te non è permesso dimenticare




Sull'autobus ora dormono tutti, fatta eccezione, per quanto ne sai, per te e l'autista che ora approfitta per ascoltare orrida musica leggera italiana. Hai conquistato, salendo sull'autobus, il diritto a due posti adiacenti, per dormire un pò, e non essere nuovamente bloccato dal tuo taciturno amico. Per quale motivo il sonno non arrivi, cullato come sei dal ritmo costante del motore, con ore passate in pista che chiedono il loro prezzo di riposo, è una cosa che proprio non ti spieghi.
Ti raddrizzi a sedere come si confà ad una persona civile, iniziando ad osservare i volti rilassati dal sonno dei tuoi compagni di viaggio. Uno in particolare ti colpisce, rendendoti consapevole del fatto che non sei il solo ad essere sveglio senza motivo. I vostri sguardi s’incontrano ancora, ma stavolta le anime nascoste dietro di loro tacciono, che le parole, neppure le parole sincere che solo le anime sanno pronunciare, in questo momento non hanno bisogno di essere pronunciate. Fai per alzarti, ma lei è più veloce, e a te non resta altro da fare che schiacciarti contro il vetro, per fare spazio alla ragazza selvatica alla cui anima sei legato da meno di dodici ore.
I vostri sguardi ora si fissano l'uno nell'altro con un'intensità nuova, non più disturbati dalla seduzione che doveva essere, privi dell'ansia che l'attesa di questo momento ha costruito.
"Ti ho aspettato tutta la sera, ero certa saresti venuto da me."
"Leggevo i segni, e nei segni il nostro incontro non c'era."
"I segni? Cosa sono?"
"Una cosa da sciamani urbanizzati, da oracoli sopravvissuti alle proprie divinità. È una cosa complicata, e non posso insegnartela, il tempo che c’è concesso è troppo poco per usarlo così."
"Troppo poco? E se volessimo rivederci? Magari abbiamo tutta una vita insieme, non puoi saperlo."
"Insieme esistiamo solo su questo lato dell'Appennino, di la non ne saremo più in grado."
Poiché tutte le parole superflue che sentiva il bisogno di dire sono state dette i vostri corpi cedono al comando che le vostre anime ormai urlano, e tu puoi conoscerne il sapore salato della pelle e quello sorprendentemente fresco della bocca, puoi perderti seguendo i contorni morbidi del suo corpo e esistere nel ritmo sempre più intenso e spezzato del respiro di lei. Puoi vederla stupire, lei che i segni non sa leggerli e non si aspetta ciò che per il poco tempo che vi resta accade, della maniera semplice con cui si abbandona a te, della maniera naturale con cui i vostri corpi si ascoltano e iniziano a muoversi insieme, come se non avessero fatto altro per tutta la loro vita. La vedi stupire nel ritrovarsi a fare cose che non sospettava avrebbe voluto fare e poi, quando inizia la lenta discesa che dall'Appennino porta a Roma, la vedi staccarsi, non più in grado di capire perchè si trova accanto a te, che ora sei solo uno sconosciuto che in qualche modo le sembra familiare, e tornare al suo posto. La vedi addormentarsi, mentre ancora s’interroga su ciò che è successo, sentendo di stare perdendo qualcosa di speciale che a te, sciamano di città, non è permesso dimenticare.

Il fresco della metro che attraversa veloce la città risveglia completamente il tuo amico, che ora, poiché il tempismo non è fra le doti a lui concesse, si sente socievole e ciarliero, vuole ricordare la serata, parla dei dj, delle ragazze che si agitavano a tempo accanto alla consolle, della follia di attraversare l'Italia per ballare una notte appena. Sorride, il bastardo, che i tedeschi avevano finito le energie e lo hanno lasciato riposare per tutto il viaggio di ritorno; se la ride, l'uomo di fango, ricordando quattro rapaci salernitane che hanno spogliato di tutto questi pellegrini d'oltralpe appena appena sprovveduti, e tu vorresti spiegargli come delle quattro una era differente, più selvatica, con le doti necessarie, purtroppo non educate a dovere, per essere una delle più grandi sciamane del secolo in corso. Vorresti dirgli, utilizzando versi gutturali e parecchia violenza, come oltre il portafoglio questa sciamana mancata ti abbia rubato pure una piccola scheggia d'anima. Vorresti, ma non lo fai, che lui, l'ignobile ammasso di carne che riempie la maglietta di cotone blu di fronte a te, non ha coscienza del mondo, né di quello reale, né di quello un pelo più mistico in cui ogni tanto ti ritrovi a passeggiare, e questa ti sembra, di per sé, una punizione più che sufficiente.

Le altre parti di Sciamani le trovate qui : 1 ,234.
E questo, per ora, è tutto; spero di essere stato in grado di regalarvi qualcosa su cui spendere bene del tempo.


Theta                                                      

lunedì 1 febbraio 2010

Sciamani 4 di 5: tre fantasmi distorti, segni di grandi verità



Alle cinque l'energia che ha mosso il tuo corpo per una notte intera viene meno e tu, accompagnato dal tuo amico, punti deciso e vagamente traballante l'uscita del locale e riprovi, stavolta con successo spinto dalla fame, a mangiare un'altro panino, grato che il tuo compare non abbia le stesse intenzioni.
Ti appoggi ad un muretto, ignaro per la prima volta in vita tua, della luce dell'alba dopo una notte passata senza sonno.
Mentre attendi le sei per salire di nuovo sul pullman che ti riporterà a casa ti appaiono tre fantasmi distorti, e nella loro follia tu leggi i segni di grandi verità.
Dal passato torna uno dei dj che si sono alternati alla consolle, ubriaco e furente, che gli sono scomparsi i cdj, se hai capito bene. Urla, strepita, se la prende con gli organizzatori che ti hanno accompagnato in viaggio fino a qui, le prende dai buttafuori, quando esagera. E tu leggi i segni, che quando il cuore del mondo ti parla nella sua lingua indiretta non puoi far altro che fermarti ad ascoltarlo. E vedi un uomo che pensava di possedere e che adesso non possiede più, e sai di un uomo che non possedeva, e che probabilmente ora pensa di possedere. Vedi un uomo che si consuma nel possesso di un oggetto, sicuramente costato fatica, ma che è, nell'economia del mondo, solo una parte irrilevante che il mondo stesso governa e fa passare di mano in mano, secondo un disegno noto solo a lui. E tu capisci, chiaro e netto come poche volte accade, che nulla di ciò che hai ti appartiene veramente, ma solo è una piccola parte di un tutto che per caso ti accompagna per un periodo più o meno lungo della tua vita, e il possesso è, cercando nei significati profondi del vivere, inessenziale.
Dall'ingresso dell'Altromondo appare una ragazza gracile, scortata da quattro buttafuori, che urla e strepita sulla necessità di quattro quintali abbondanti di muscoli gonfiati chimicamente per trascinare fuori il mucchio d'ossa che è lei. Pretende si dimostri la fondatezza delle accuse degli energumeni, che lei proprio non si droga e che tutto quello che vuole è solo tornare dentro a ballare. A te qualche dubbio viene, a vedere questo scricciolo che se la prende con quattro giganti, e che a mezz'ora dalla chiusura fa dell'entrare ancora una questione vitale. I dubbi te li leva il suo ragazzo, a metà fra l'incazzato e il rassegnato, che impiega un buon quarto d'ora ad allontanarla dall'ingresso, mentre lei si divincola testarda. E tu nuovamente leggi i segni, che a non leggerli potrebbero non tornare più. E vedi un uomo che pazientemente stringe a se questa specie di strega che non accetta la fine del tempo concesso al ballo, e nella sua furia rovina già il ricordo di ciò che è appena stato. E nell'uomo vedi il tempo, paziente, che poco o nulla si cura delle afflizioni degli uomini, che strepitano nel suo scorrere, incapaci, come la ragazza che si divincola fra le sue braccia, di godere delle ore e dei giorni a loro concessi. E tu capisci, poichè i segni sai leggerli, di non avere potere sullo scorrere del tempo e, solo, devi accettarlo, godendo di ognuno del limitato numero di istanti a tua disposizione e solo, se in alcuni casi ti sono sembrati pochi, crogiolarti nel loro ricordo.
Una fugace visione ti ridesta dal tuo pensiero: corre, ridendo e bestemmiando e insultando i buttafuori con accento toscano, sparendo in poco tempo dietro l'angolo. Lo segue un bisonte dello staff, enorme e arrabbiato, convinto di riuscire a spiegare le sue ragioni con il solo ausilio del frutto di anni di palestra e diete iperproteiche. E come anche lui scompare appaiono all'inseguimento i suoi colleghi, preoccupati che non faccia carne trita del folletto toscano sul cui destino puoi solo speculare. E tu ridi, che il folletto toscano ha una risata contagiosa, della sua gioia e della forma comica in cui ha costretto gli eventi, spingendo a correre sulla statale le statue dello staff nel tentativo di fermare uno di loro che, da protettore della calma e dei beni del proprietario del posto, è divenuto una figura molesta da allontanare. E ti diviene chiaro come il sole che ora sta spuntando pigro quello che quest'ultimo fantasma ti ha voluto dire. E tu, ora libero dalle catene che le cose e il tempo cercavano di stringerti addosso, comprendi l'onnipotenza di cui dispone chi, senza distrazioni inutili, semplicemente realizza la piena potenza del suo esistere.