mercoledì 30 giugno 2010

Da un discorso con Tazio: misoginia evolutiva

"E quindi?"
"Quindi mi sono preso una gatta."
"E com'è?"
"Mi sveglia alle tre di mattino, mi salta addosso, mi riempe di graffi e morsi e poi, quando è soddisfatta, pretende le coccole prima di addormentarsi sul mio lato del letto."
"Praticamente una donna."
"Già, gli manca solo la parola."
"Io te lo dico sempre che sopravvaluti il pollice opponibile"

Tetrapiloaforistica #13 : Corrispondenze (sforando)

Diceva Einstein che "la Mente è come un paracadute: funziona solo se apre".

Mi preme di sapere se solo io vedo una ironica quanto azzeccata correlazione fra questa frase e un recente episodio di cronaca che ha coinvolto" l'ex GeFFino" Taricone.

Ma poi sotto sotto me ne sbatto e alzo il volume della radio, che l'ipocrisia fa un gran rumore.

lunedì 28 giugno 2010

Non saprò cosa hai fatto, William

- C’è la storia dell’uomo morto, fra quelle che so. Que pasa, amigos? Non ci vuoi credere? L’ho visto una volta, te lo giuro sui miei guevones. E’ la storia di un uomo che non tiene nome, ma se una scorreggia facesse scintille, ecco, quello sarebbe il suo nome. Se è una storia triste? No, hombre, non lo è. Non c’è nessuna er.. come dite… es… romantica. Non c’è sogno, in quel che dico, non c’è passione, y sientimento. Non c’è passato nemmeno Dio, in questa storia, intiende? Tutto era nove, dieci anni fa. Forse venti, non che importi poi, in questo buco di culo di posto. Ero seduto proprio li, dove sei tu adesso. Era caldo, torrido, come siempre, ma di più. Le mie chiappe erano sudate, e avevo bevuto solo il giusto, quel che basta a sopravvivere. Al tempo eravamo dieci peccatori e due preti in tutto il villaggio e il mezzogiorno stava zitto come un bastardo. Ma non quella volta. Quella volta era vento, y ronzio. Y tintinar.

L’orco guardava l’ospite, sornione. E con lentezza indicò la porta del saloon, l’avventore seguì lo slancio con gli occhi. Il mondo stava fuori ed il deserto con il suo niente, si muoveva un passo dietro al tempo. C’era rosso e liquore per cielo, la sabbia in turbine danzava gitana e insolente. Allora, l’ospite sentì.

Y tintinar.

Ma non era come se l’aspettava. Non era uno scampanellio. Sembravano invece nacchere. Secche, regolari, dipinte all’orecchio con mano ferma. L’ospite mise mano all’impugnatura di sandalo d’una pistola precisa, e si precipitò all’uscio. La campana vibrò i suoi rintocchi come fossero preghiere. Come sono fatte le parole, così arrivò l’aria, ma muta.
- Non.
Il forestiero mormorò orrore nel sentire il suo naso violentato dal fetore della carne marcia. Alla sua destra, una ragazza sulla veranda, nel velluto e nel raso, all’ombra dei suoi stessi capelli rossi, fermava i minuti stando immobile su una seggiola a dondolo.
- Cosa? – Le chiese, ma troppo tardi. C’era già lo scheletro, in fondo al viale. Piccola bestemmia scintillante, sepolta nel cinturone della pistola, cappello e bavaglio, stivali consunti. L’orco si gettò fuori dal locale ringhiando le parole, come si vomitano le sbronze. Annuì a quelle ossa e sparò fulmini imprecisi, schioccando le dita. Ma di ben altra abilità sono capaci gli uomini soli e sparano dritto, nel centro del cuore. Così l’uomo morto non si fece pregare e lasciò alla neve che prima o poi sarebbe venuta, un cadavere nuovo. Il fumo della canna, così sinuoso parlava di tutto quello che un’espressione d’un teschio non può dire. Lento, quello, arrivò al saloon, col giovane ospite che si ritrovò non più così giovane nel vederselo passare ad un palmo, così pieno di niente. Lo scheletro prese i capelli della ragazza e una commovente faccia putrefatta venne scoperta. Se la trascinò via ghermendola per quel lungo rame; i piedi di lei, che tracciavano l’assoluzione per la terra asciutta, smuovendola dalla sua ignavia, perdevano tessuti e vermi. Così il forestiero rimase in quel posto, per sempre, solo con il pensiero che spesso l’amore non somiglia all’amore.

Questa è la storia di Willie.

domenica 27 giugno 2010

TETRAPILOSPITATA #1: Roberto Procaccini

NOTA AI LETTORI:
ovvero:
Perchè anche "lui", il settimo giorno, si riposò.


Lo staff di Tetrapiloctomia è lieto di annunciarvi che ci sentiamo Dio.
Ora, questa è una caratteristica comune a molti scrittori, quindi niente di nuovo. So per certo che Ken Follet provò a camminare sulle acque e Baricco ha cercato di trasformare l'acqua in vino.
Follet è quasi affogato, Baricco s'è rassegnato a bere succhi di frutta.
Perchè la Verità, temo, è che ci sentiamo Dio, ma siamo solo scribacchini. Tutti.
Quindi, per non incappare in delusioni, i vostri Tetrapiloctomici decidono di emulare l'Altissimo nella cosa più semplice. Ovvero: il settimo giorno, noi ci riposiamo.

Ma non vogliamo certo lasciarvi da soli ad affrontare un giorno duro come la domenica. Un giorno scorretto, un giorno corretto (grappa), talvolta. Un giorno che finisce già dal pomeriggio, causa spettro incombente del Lunedì.

E quindi, ospitiamo.

Da qui in avanti, una volta ogni due settimane (fino a esaurimento scorte), la Domenica sarà il giorno in cui sulle pagine elettroniche di Tetrapiloctomia vedrete apparire contributi di alcuni nostri amici.
Cominciamo oggi con...

ROBERTO PROCACCINI.
BIO: Roberto nasce a Napoli il 16 ottobre 1984. E lì rimane, non per scelta sua, ma perchè altrove non lo vogliono: mangia troppa pasta, sporca, canta canzoni sguaiate che inneggiano a Maradona, studia Storia in maniera compulsiva tanto da decidere di laurearsene col massimo dei voti condannando così se stesso a una fantastica disoccupazione ad altissimo tasso di cultura.
Il giorno in cui comincia a mangiare con coltello e forchetta e a scrivere un romanzo ("In Balìa") capisce di essere diventato troppo intellettuale, troppo colto, troppo educato e per questo si rivolge a Tetrapiloctomia.
Avremmo potuto indurlo a bere ma abbiamo fatto di peggio.
Gli abbiamo chiesto un racconto.
Eccolo.

DE FALLATIONIS CONSOLATIONE IN ARTE PORNOGRAPHICA

[ovvero "avere un cazzo per idrante"].

di Roberto Procaccini


L’arte è specchio della civiltà che la esprime. E’ piena di simboli, valenze, riferimenti a schemi culturali più ampi, all’immaginario tutto. E’ così, sempre, in qualsiasi epoca e di fronte a qualsiasi grado di complessità.

E’ per questo che esistono attualmente scienze quali la semiotica, la simbologia, è per questo che si registrano moltitudini di studi interdisciplinari sulla comunicazione attraverso immagini, suoni, parole. Perché un artista, in maniera più o meno consapevole, infonde nella propria opera più di quanto esplicitamente espresso, e allora dopo tocca ricostruire e interpretare tutti i collegamenti.

Oggidì, per ragioni che chi scrive non riesce ancora a comprendere nonostante l'impegno profuso, si incontrano grandi difficoltà a riconoscere pari dignità (e soprattutto ad applicare gli stessi strumenti) alla pornografia.

Eppure è chiaro che proprio una branca della cinematografia che si interessa di un argomento così delicato (l’essere umano - per lo più maschio, ma non necessariamente - e i suoi pruriti genitali) offre degli spunti di analisi eccezionali.

Nel nostro piccolo si proverà ad infrangere questo muro, e a mettere sotto lente di ingrandimento un aspetto della pornografia in particolare: l’emergere negli ultimi anni di una certa vena “pietistica”.

Intendiamoci. Il porno è una rappresentazione artistica di un realismo esasperato, a tratti esagitato, con vette che toccano spesso il surreale, di una delle principali attività dell’uomo: il Sesso. Lo si definisce in questo modo perché è chiaro che non solo è fortuna di pochi avere certi attributi, ma è pura fiction l’idea che possano essere universali certe attitudini.

Il sesso del porno è molto distante da quello praticato dalle persone comuni lontano da set, fari e obiettivi. Proprio qui sta il suo appeal (sebbene il genere “amateur” – dove ragionieri con la panza si fottono le mogli in pensione in 27 secondi netti – sia sempre molto apprezzato) : marcantoni con membri di pari dimensioni del tronco di un bambino di dieci anni, generose ragazze in grado di ospitare nei propri orifizi senza particolare difficoltà plurimi arnesi naturali e meccanici, tenuta allo sforzo aerobico e anaerobico fuori dal comune (anche se i più smaliziati sanno che l’arte del montaggio in questo aiuta molto), disposizione al sesso senza se e senza ma (soprattutto senza mal di testa, bambini che possono sentire, stanchezza, pigrizia o altro) etc etc. E’ questo, e molto altro, l’offerta del porno.

Si sarà però notato che il porno è un cinema molto attento a non disturbare il proprio pubblico. Emerge chiaramente dal fatto che nei film zozzi il ruolo dell’attore maschio è limitato unicamente a quello di portatore di cazzo (eretto). Le inquadrature sono tutte destinate alle attrici (ai loro sguardi, ai loro sospiri, al loro corpo, alla loro fica). Sono le attrici il vero protagonista principale: sono seguite dall’inizio alla fine, sempre al centro dell’obiettivo. L’interprete maschile, invece, compare giusto nelle inquadrature più ampie, altrimenti è destinato a comparire dall’ombelico in giù, mentre il suo braccio armato compie il proprio dovere. E’ veramente raro trovare un regista che decida di dedicare un piano sequenza all’attore nel proprio amplesso: e, quando capita, lo si trova di cattivo gusto, un fotogramma sprecato. Il primo piano dell’uomo che geme viene valutato come una caduta di stile. E, d’altro canto, se il pompino è un must ineliminabile da qualsiasi pellicola porno (prima, dopo e a volte durante l’amplesso), molto più raro è incontrare un cunnilingus.

Ed è proprio sull’onda lunga di questa tendenza, dunque, che nasce un sub-filone particolare. Questo, secondo chi scrive, nasce dalla volontà di mettere assolutamente a proprio agio uno spettatore che, altrimenti, potrebbe essere turbato dall’atletismo di gonzi ben più dotati e capaci di lui. Sicuramente chi legge (e finiamola di fare la parte “e no, io film porno non ne guardo!”) avrà sentito parlare dei POV. Questi sono dei filmati, spesso brevi, solitamente privi di trama e centrati unicamente sull’action, dove in soggettiva (POV è l’acronimo di Point Of View) il porno-attore riprende il proprio amplesso. Ce ne sono di completi (dove, ovvero, è filmato un rapporto vaginale), ma il più delle volte, e non è un caso, i POV riguardano solo seghe o pompini.

Riepiloghiamo. Uno spettatore carica il video e si trova 7-8 min di inquadratura fissa: di fronte al bacino e alle gambe dell’attore che tiene la telecamera (ci risiamo: dall’ombelico in giù), una o più ragazze espletano il proprio lavoro.

Si tratta di un vero e proprio atto di democrazia e cortesia. L’inquadratura soggettiva non serve tanto a favorire l’immedesimazione tra spettatore ed interprete, quanto a neutralizzare al massimo la sensazione di invidia del pene e inadeguatezza che in una persona possono suscitare le imprese di Peter North. Nei POV l’attore finisce per essere unicamente il proprio cazzo: niente di lui, se non la voce, arriverà in video. E per di più un cazzo dritto, ma perfettamente inerte: non un colpo di bacino, non un’impresa sportiva, niente di tutto ciò. Niente che possa far pensare allo spettatore “io questo non lo saprei fare”. In realtà i POV potrebbero essere girai con dildo vibratori, data l’assoluta passività dell’uomo, ma non lo si fa perché, ovviamente, ciò renderebbe il video meno interessate.

L’attore rimane immobile, seduto o sdraiato, mentre l’attrice lavora di gomito, fino alla liberatoria sborrata conclusiva. Lo spettatore non si trova di fronte un rivale che sottolinea la sa medietà erotica; anzi, potrà pensare con una certa libido e soddisfazione “anche io saprei farmi spompinare in questo modo”.

Che cosa impariamo, allora? Che in questa società dello spettacolo, del business, della competizione sfrenata, del tutti contro tutti, dell’homo homini lupus, del mors tua vita mea, del liberismo sfrenato, c’è ancora spazio per la misericordia e per la comprensione. Come se i giocatori professionisti di calcio organizzassero una serie dove, tra colpi di tacco e maestrie, non si riesce a correre per 90 minuti, ogni tanto ci si fanno due risate, tra primo e secondo tempo ci si prende a gavettoni e la diretta sky finisce in pizzeria tra rutti, sbronze e scoregge.

Un cinema nato sull’esaltazione del corpo, delle misure, di prestazioni fuori dal comune, dove il gigantismo e l’ipertrofia sono la norma, che decide di fare un passo indietro per andare incontro al proprio pubblico.

In questo mondo c’è ancora spazio per la poesia.

venerdì 18 giugno 2010

Album di Famiglia. La Nonna.


Da uno scritto ritrovato dietro una fotografia che Tazio Martini portava sempre con se. Queste parole vengono intese dai più come gli ultimi pensieri scritti della nonna di Tazio, scomparsa nel Settembre del millenovecentosettantuno.

In odore di lacrime in partenza, sfoglio tutti i cristi dei miei ricordi, ora che il suono forte della gola, arride alle costole che scricchiolano e infrangono il petto mio - pare che loro siano in più coraggio di me - . Le carezze del grigio si respirano quando Settembre muore; lo spazio dell’aria lasciato ai seni, ai polmoni che sobbalzano s’io singhiozzo. E’ la riva che mi sommerge a soffocarmi dei miei stessi sensi, mentre la spuma si prende gioco di tutto quello che pensavo mi fosse dovuto, avvolgendomi i piedi fino alle caviglie, per poi fuggire e ritornare, come in una vecchia canzone, chiamandomi, mordendomi, velando di lieve la coscienza, che ancora mi sento in diritto di chiamare tale, non so per quanto ancora. Lo sguardo che svolge quel incompiuto si infrange, senza soluzione, verso l’immenso dell’ignoto tutto attorno. Ho poca voglia di restare in piedi, meno ancora di rialzarmi. Quando piansi per la prima volta, la colpa fu di un amore finito. La seconda, fu per un amore morto, sepolto e inchiodato da una lapide. Ma cosa posso fare per un amore disperso? Forse aspettare ancora che sia la guerra a riportarmelo. Chiederlo indietro ad ogni soldato che è per la via. Mangiare in tremiti ogni necrologio, carezzare foto di giornale, aspettando notizie. Mio dolore, ti ho donato in pasto questa metà di secolo, tanto tempo da confondere la vita, la storia e la leggenda. E se le membra avvizziscono, non dimentico il sapore del tuo dire. Siamo così piccoli, che per risuonare nel vuoto, urliamo preghiere, che ancora non accontentano questo cielo di carta e fuliggine. Il mondo si muove sotto ai miei piedi d’avorio, o sono io che cammino, non ho modo di capirlo, mentre vengo a prenderti, nel fondo di questo mare che m’ha aspettato quanto io aspettavo te. Io t’avrò, tu avrai me, E tutt’attorno un applauso di luci, mentre balleremo la nostra canzone, nuotando a diecimila anni di profondità.

Questa Non E' Una Storia Porno

La risacca, s’era portata un cartello da Bisanzio nell’anno più o meno appena svaccato. Nuvole selvagge aravano la terra, in un nero seppia antico, da averlo in fotografia. Decrepite bisbetiche sfidavano la vita, a colpi di malocchio, sussurrando il malcontento di un’esistenza assente. Sputavano controvento preghiere sboccate, così strette in mezzo ai denti da vibrare giù per i campi.

Le vecchie, prima degli altri, lo videro.

Montarono i denti a nacchere e suonando l’alleluia si mossero, come l’ombra curva d’un corpo solo, verso quell’evento che la pietà di Dio concesse loro. Scivolarono, fluttuarono, mani giunte, come meduse terrene, fino ad arrivare in ciocche di cipiglio dove che il mare salivava stanco, e moribondo si ritirava, per esser ventre e carnefice di qualcuno che qualcuno non vuole essere più. L’acqua carezzò perl’ultima volta il bagnasciuga, allontanandosi assieme alla sabbia, la via, i germogli, scappando in eleganza da sotto i piedi delle austere, lasciando la scenografia al castello cittadino, di grigio vestito, dalle orecchie in drappeggi rossi. Mura senza fortuna, cui hanno tolto il senno. Le megere, avevano il sospiro sopito fra le guance, ad appassire in odore di aglio, impastato, mentre avide leggevano, tenendo ognuna con la mano il verbo di cartone. Se le parole avessero le gambe, fuggirebbero dal mio dire, da tanto turpiloquio ne seguì. Invettive e maledizioni scapparono al vento, mentre esse lanciarono con inaspettata forza, quello scritto oltre le mura. Questo cadde nel cortile, senza frignare, si riposò nella terra per un ora mezza, a spogliare il cielo con i pensieri, fino a quando lo trasse in aria una mano di uomo, così forte da sembrare sincera. Era il Cavaliere delle Righe Storte, il più nobile degli sconosciuti. Senza complimenti, il cartello si innamorò di lui. Occhi di paure ben celate, capelli di Bretagna, e voce, ah che voce, fatta di spezie orientali. Senza pentimenti, allora si lasciò leggere, li, su due piedi, sfumando pudore in voluttà. La rivelazione che colpì il cavaliere, non colpì la cavalcatura, che partì sotto suggerimento del frustino. In quel giorno vigilia di niente, il cavaliere prese il cammino, portando seco il cartello, in una muta di paesaggi, volarono il mondo, arrivando ben due volte dove fumava il vecchio culo del sole. Trovarono la casa di una bambina e dopo aver bussato alla porta, il cavaliere poggiò sullo zerbino il cartello innamorato e fuggi senza voltarsi, piangendo lacrime di liberazione. La bimba aprì la porta. Era fatta di vetro e sorriso, ma di un vetro che sapeva di carne e di un sorriso che parlava tristezza. Aveva tutta la vita di dietro, dentro la casa, ammucchiata in sogni tremanti, divisa in sacche da viaggio mai usate. Spiravano colonne di nostalgia dal caminetto acceso, rubando all’aria l’immobilità del freddo. La bimba raccolse il cartello, per non vedere disordine, ma non sapendo leggere, con cortesia lo ripose sul tavolo. Lui si accomodò su un morbido centrino godendosi il sollievo alla schiena, provata da tanto girovagare. Lei si accostò al telefono chiamando il dottore, esprimendosi in versi di donna, controllando nella tasca il suo pacchetto vuoto di Lucky Strike. Il dottore comparì poco dopo, giù nell’orto, mangiando un’arancia con la buccia. Con il naso poggiato sotto gli occhiali ed una figura così minuta da poter rendere ridicolo il senso stesso del termine, si apprestò in fretta e furia a visitare il cartello, leggendolo con scienza esatta. Mentre il volto dell’uomo si preoccupava di non preoccuparsi, il cartello avrebbe voluto chiedere notizie sulla sua salute, ma gli riuscì appena di rimanere com’era sempre stato nei confronti del mondo: disincantato e senz’altro da aggiungere. Il dottore era sveglio, nonostante non l’avesse mai dimostrato. Con un cenno, chiamò le vecchie dall’altra parte del mondo e sussurrò al cavaliere di prestargli attenzione, dovunque esso fosse. Organizzarono in fretta il da farsi. La mattina nemmeno fece in tempo a scalare l’orizzonte, quando li sentii urlare, tutti assieme, sotto la mia finestra. Aprii gli occhi e mi ritrovai sveglio che fornicavo col cuscino. Balbettai il passo di pigiama fino ai vetri, che aprii a fatica. E in effetti c’erano proprio tutti; la bambina, le vecchie, il cavaliere, il dottore. L’unico restio ad urlare era il cartello. Fecero proclami e minacce, suppliche ed invettive, fintantoché, non dovetti cedere. Avrei rimesso a posto le loro vite, mi sarei ripreso cartello e maledizione. Fu il cavaliere, più prestante di altri, a lanciarmelo. Mi sporsi considerevolmente e con una mano riuscii ad afferrarlo. Era unto, insabbiato e leccandolo sapeva di sale. Non come quando l’avevo scritto. Salutai tutti con la mano e mi sedetti alla scrivania, sospirando l’emozione d’abbandono che provavo. Così li aiutai. Resi loro una morte degna, cancellandoli da ogni storia scritta, distruggendo ogni traccia della loro memoria. Ne salvai solamente due. Una, spero un giorno non mi venga a trovare, spero rimanga lontana da questo posto, e spero che arrivi a sera con i piedi dolenti per i chilometri lasciati alle spalle. L’altro è qui con me, ora pulito ed appeso al suo posto, con il suo petto che a tutti dice “Scemo chi legge”.

Tetrapiloaforistica #12 - Causa e Effetto

Non è il sole che sorge, è solo l'ultima Tequila Sunrise. Andiamo a casa.



Tazio Bruno Martini, "Le ineccepibili ragioni del gin tonic

mercoledì 16 giugno 2010

Pugni

NOTA: il racconto risale a parecchio tempo fa. Era l'estate del 2008, io ero da poco tornato dalla Corsica e passavo un periodo particolare.
Sperando che rispolverarlo sia di buon auspicio per l'estate che viene, è un piacere offrirvi...


PUGNI
un racconto di
Danilo Cipollini




a B.


Spogliatoio non è solo un sostantivo singolare maschile. E’ un sostantivo singolare maschio. E’ come Rasoio, oppure Coltello, che ne so. Giornale, o Teatro, non fanno lo stesso effetto. Quelli sono solo sostantivi maschili, semplici, pura distinzione di Genere.
Spogliatoio, invece... Spogliatoio è Uomo, non solo Maschio, porta con se’ immediati ricordi di odore aspro di sudore, e candeggina, e dopobarba da due soldi. Porta idee di muri e macchie gialle, di orinatoi, di asciugamani umidi.

Sauna, invece... beh Sauna è femminile e femmina. Calda, umida e avvolgente...più Femmina d’una sauna non c’è davvero niente.
Dalla sauna sfilo un asciugamano che ci ho lasciato dentro qualche minuto e caldo e bagnato me lo appoggio sul collo per rilassare i muscoli. Poi mi siedo sulla panca di legno, i gomiti poggiati sulle ginocchia, lo sguardo fisso verso il pavimento bianco chiazzato, e resto in silenzio in questo spogliatoio mascolino e asettico a lasciare che il sudore mi scorra addosso. Sento le gocce scivolare dalle tempie e scorrere verso il naso, rigare gli zigomi, fermarsi a giocare qualche secondo sulla punta del naso e poi cadere a terra. Nel silenzio che c’è, ogni goccia che cade sembra un’esplosione.

Mi concedo un quarto d’ora di tranquillità ogni volta che devo salire sul ring. Non che siano grandi incontri, i miei... non sono un pugile professionista. Sono poco più che allenamenti con qualche amico. I pugni, però, sono sempre veri. In uno sport come la boxe il concetto di allenamento ha una valenza relativa... quando giochi su un terreno le cui regole sono distruggere l’essere umano che c’è davanti a noi, non c’è modo di edulcorare la realtà. Non puoi chiedere a un pugno di non stenderti, o di non farti male.
L’orologio segna le 22, è ora di andare di là. Stendo la mano lentamente alla mia destra e afferro le fasce per prepararmi a salire sul ring.

Di tutti gli strumenti che la boxe ti costringe a frequentare, le fasce sono senza dubbio le mie preferite.
Due metri e mezzo di poliestere e cotone, con un anello di stoffa da un lato e un cinturino di velcro dall’altro.
La fascia rende un pugno duro come un sasso. Protegge la mano, stringendo le nocche per evitare che si allarghino e indurendo il polso, evitando che si pieghi e subisca sforzi inopportuni e traumi conseguenti.. Al tempo stesso, comprime e stringe ossa e carne in un unico cono rigido, rendendo un pugno uno strumento perfetto.
Ma non è solo perchè sono utli che mi piacciono... Ci vedo dentro qualcosa di sacro, un retaggio del passato. Gli antichi sacerdoti greci indossavano fasce prima di officiare i riti per gli Dei. Quelle bende venivano conservate e difese anche con le armi, se necessario. Era da quelle fasce che quegli uomini sacri prendevano la loro forza spirituale.
Su un altare ben più profano celebro il mio, di sacrificio.
Comincio così il mio rito pagano, afferro la prima fascia, fisso l’anello alla base del dito medio e inizio a farla girare. Tre giri ben stretti intorno alle nocche, poi scendo gradualmente e inisto sul polso,
Tredici giri e la mano è pronta. Altri tredici, e sono pronto ad andare.
Le mani si fanno compatte, e le senti appesantirsi, e contemporaneamente le senti come se fossero invicibili.
Prendo i guantoni, li metterò solo all’ultimo momento.
Mi alzo e cammino veloce fuori dallo spogliatoio. Come al rallentatore spingo lo sguardo fuori dalla porta mentre la apro. La luce del corridoio mi cattura e non penso più a niente.
Dal momento stesso in cui sono fuori di qui, è già boxe.


Quattro ore dopo, sdraiato nel mio letto, fisso il soffitto respirando piano. La luce filtra dalle persiane semichiuse, e illumina di strisce tenui tutta la stanza, rendendo il nostro mondo zebrato. Sento caldo sulla spalla, su cui scendono i tuoi riccioli biondi, ma è una splendida sensazione. La tua testa ha trovato un appoggio comodo fra spalla e petto, e senza guardarti posso sentire il tuo corpo muoversi al mio fianco. Sollevi una mano con un gesto lento, e bellissimo, e la porti sul mio naso un po’ ammaccato dall’incontro di stasera. “A lui è andata peggio”, ti dico. Sorrido piano e tu ti giri a guardarmi. Mi baci per impedirmi di dire altre cose fuori luogo. E io sorrido un po’ più forte, perchè è proprio questo che mi piace, di te.
Lascio penzolare la mano sinistra fuori dal letto finchè non artiglio la scatola dei sigari e l’accendino. Accendo un mozzicone di Toscano – quella di fumare a letto è una pessima abitudine che ho preso da poco – e soffoco un colpetto di tosse quando la prima boccata di sigaro mi secca la gola come se fossi in pieno deserto. La tua mano mi scorre sul petto e poi inizia a scendere verso l’addome. All’ombelico si ferma e torna su, con un movimento circolare, risalendo dall’altra parte del busto, e ricominciando. Una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, tredici volte.
Ed è lì che finalmente è tutto chiaro.
Non credo troppo nel destino e ho tanta fantasia. Per questo ho capito che tu sei le fasce della mia vita. Come la fascia impedisce al pugno di farsi male e lo rende più forte, tu stai facendo la stessa cosa col mio cuore. Quelle tredici carezze mi hanno fatto capire che si, è proprio così.
Chiudo gli occhi e spengo il sigaro in un bicchiere. Sfrigola un po’ a contatto con l’acqua, è il rumore di un istante ma nel silenzio lo si sente bene.
Non ti guardo e mi chiedo che rumore farà un cuore che diventa più forte.

Tetrapiloaforistica #11 - Lavanda

L'Anima, ahinoi, è un tessuto che non si smacchia. Mai.

venerdì 11 giugno 2010

Chiudetevi in casa e covate rancore.

Chiudetevi  in casa e covate rancore.
Non manifestate.
Non portate avanti battaglie civili.
Non scendete in piazza.
Non aderite a proteste sul web.
Non lo fate, è un modo inutile per sfogare la vostra preziosissima rabbia, e a loro fa troppo comodo.
Chiudetevi in casa e covate rancore.
Fate salire la rabbia.
Siate scontrosi, nervosi.
Non cercate sfoghi.
Maturate la vostra indignazione.
Chiudetevi in casa e covate rancore.
Loro sono maggioranza e opposizione.
Loro sono stato e antistato.
Loro ridono mentre noi moriamo.
Loro fottono mentre noi perdiamo il posto.
Loro si arricchiscono mentre noi non sappiamo più come andare avanti.
Loro ci tolgono ogni diritto.
Chiudetevi in casa e covate rancore.
Poi, quando la rabbia non è più controllabile, fate, facciamo quello che deve fare ogni persona civile in casi come questo.
Smettiamo di essere civil. Con un minimo di lucidità, se possibile, le forze dell'ordine schierate in tenuta antisommossa non hanno colpe, e prendersela con loro non risolve un cazzo.
Facciamo ciò che dobbiamo, con rabbia e con odio, ma mossi da amore per noi stessi e per il nostro paese; facciamo ciò che dobbiamo, da civilissime bestie.
Il linciaggio è un atto dovuto, civile e soprattutto risolutivo.
Tutto il resto è curare il cancro con l'aspirina.
Quindi chiudetevi in casa e covate rancore.
Ma per dio fate in fretta, che riparare i loro danni diventa ogni giorno più difficile.

Tetrapiloaforistica #10: ULTERIORI riflessioni sull'Amore

Ulteriori riflessioni sull'amore:
talvolta, l'Amore è solo un apostrofo rosa
fra le parole "Succhia" e "Più forte"

Tetrapiloaforistica #9: Riflessioni sull'amore

Riflessioni sull'amore:
credo proprio che dovremmo vivere insieme.

Sei la persona che odio di più al mondo. Dopo me

giovedì 10 giugno 2010

Soltanto questo

Dedicato a

Alessio balla guardando Marina.
Marina balla guardando Alessio.
Niente altro conta per loro, soltanto questo.
Gli occhi dell'uno e dell'altra raccontano la stessa identica storia: Marina impiega un istante, e la storia finisce di botto; Alessio parla ed è un fiume, ma non arriva comunque alla fine.
Hanno levato i calici mille volte di troppo, conoscendosi sull'orlo del mare, si sono detti ogni cosa importa, e non sono servite che venti parole.
Adesso camminano insieme, l'uno imitando i passi dell'altra, non sono più soli nel cuor della terra, e la sera non fa più paura.
Ora Alessio balla la vita per gli occhi di Marina, e Marina balla la vita per gli occhi di Alessio.
Niente altro conta per loro, soltanto questo.

mercoledì 9 giugno 2010

Tetrapiloaforistica #8: Alta gradazione logica

'namose a beve una cosa così me ripijo un attimo, che sto troppo ubriaco per guidare.

Otorinolaringoiatria

La signora Isabel Allende sostiene che (cito testuale) "Il miglior afrodisiaco per le donne sono le parole: il vero punto G è nelle orecchie".

La signora Isabel Allende è una donna.
La signora Isabel Allende è una scrittrice affermata.
La signora Isabel Allende ha venduto milioni di libri. E questi libri li hanno comprati milioni di uomini, si, ma anche e SOPRATTUTTO milioni di donne.
La signora Isabel Allende scrive da cani. Ma NONOSTANTE questo, quei milioni di donne continuano a comprare i suoi libri.
Cristosanto, DEVE aver capito qualcosa che a me sfugge. DEVE.
Allora, mi fido.


La mia fidanzata mi ha denunciato per tentato uso improprio di oggetto fallico in lattice. Poi mi ha piantato e è scappata col suo otorino.

martedì 8 giugno 2010

Tetrapiloaforistica #7: Anatomia & cigarettes

Proporrei un cambio di nome di matrice anatomica, da intestino a inDestino:
in effetti, l'esito di una giornata, molto spesso dipende da quei dieci minuti che seguono caffè & sigaretta, e precedono il resto della tua vita

Se la rossa vuole ucciderti, ci pensa la bionda a salvarti la vita

Sabato notte, nemmeno troppo tardi, viste le abitudini.
Ma l'hai bevuta.
La birra di troppo, una rossa; tutte quelle di prima le avresti rette tranquillamente, ma questa rossa no, semplicemente non potevi, e qualcosa, dentro di te, cede.
Ti metti in macchina, la direzione è casa; ti piomba addosso tutto: una giornata al mare, un aperitivo in centro, una cena, un dopo cena e un concerto. E lei, la rossa che vuole rapirti la vita.
La strada provinciale sfuma nel buio e sfoca nell'alcol; le curve sembrano sempre un pochino più dritte, i rettilinei si fanno sinuosi; gli occhi si fanno pesanti, i sogni si mischiano alla realtà.
Vorresti fermarti, ma un posto decente per accostare non c'è, e tutto quello che vuoi, adesso, è un letto in cui crollare fino a domani.
Lo sguardo rosso di un semaforo ti convince a poggiare il piede sul freno; sei fermo, occhi cinesi che tieni aperti a stento, e sai che una volta ripartito sarà tutto infinitamente più difficile.
Ed è una bionda che viene a salvarti.
Una macchina si ferma al semaforo accanto alla tua, e tu non registri nemmeno l'informazione.
Poi ti senti chiamare, e lei, mezzo busto fuori dal finestrino, ti chiede se hai da accendere.
Il verde scatta, dietro di voi qualcuno suona impaziente, tu gli dici di accostare con te e riparti.
Accosti, qualche metro dopo il semaforo e aspetti, seduto, di vedere quel che succede.
L'altra macchina accosta, qualche metro davanti a te, e tu puoi gustarti lo spettacolo di lei che scende e ti viene incontro, con l'andatura incerta degli adoratori di Bacco, stretta in un jeans e una maglietta che non ricorderai mai con certezza se è azzurra o verde o quello che è. Arriva di fianco alla macchina, occhi cinesi che incontrano occhi lucidi, del colore di una bottiglia di gin Bombay Sapphire, la massa bionda dei suoi capelli illuminati dalla fiamma dell'accendino.
Poi ti dice che sei la persona più gentile che abbia mai incontrato, allunga una mano dentro il finestrino e ti accarezza la testa, miele caldo su una ferita aperta, brucia dove tocca, e intorno cola piacere.
Se ne va, irreale e improbabile così come è comparsa, lasciandoti in dono quel tanto di lucidità che ti serve per riparare nel porto sicuro di un parcheggio sotto casa e svenire con calma.
Ti svegli ridendo nelle prime luci dell'aurora, e mentre barcolli verso casa ringrazi la tua personale divinità fatta di eventi improbabili, che questa notte è venuta a salvarti la vita tracciando la fine di un cerchio, a concludere un capitolo della tua vita.
Una ragazza dai capelli rossi ti stava mangiando la vita, e tante, tante birre bionde ti hanno tenuto in piedi.
Troppe birre rosse volevano rubarti la vita, e una ragazza bionda è comparsa per trattenerti tra i vivi.

lunedì 7 giugno 2010

La Festa Dei Morti - Estratto -

La Festa dei Morti è un estratto di una cosa che sto scrivendo da una decina di anni e che, con tutte le probabilità, continuerò a scrivere per il resto della mia vita, giacché, ormai, non è più una questione di fare o non fare. È una questione d’affetto. E sinceramente, non sono pronto a finirlo ed abbandonarlo. Forse non lo sarò mai. Comunque, qualsiasi cosa sia, si chiama Fiaba Noir. A voi.

Nota: Il titolo dell’estratto, non l’ho scelto io. Gliel’ha dato uno che l’ha letto. Lo ringrazierei e lo citerei, se solo mi ricordassi il nome.


- Sai a cosa pensavo Mendoza?
Inarcando il sopracciglio senza smettere di pulire il bancone.
- Pensavo... non ho mai visto un vecchio giù in città... a parte il Capitano...
- Non ce ne sono. Hai pulito i bicchieri?
- ...
Pausa; lo straccio stride su una superficie già lucida, insistendo su aloni che giustamente chiedono di rimanere lì, dove placidamente hanno albergato per tanto tempo.
- Si, li ho puliti. Ma che vuol dire che non ci sono?
- Vuol dire che non ce li fanno stare. E li hai anche asciugati? Sai quanto detesto le macchie di calcare.
- No, ora lo faccio.
Ripone lo straccio sulla spalla a far da sostegno all'aria burbera e lavoratrice d'un barista. Si muove a passo lento, ciondolando sovrappensiero verso il lavabo.
- Che vuol dire?
- Cosa?
- Quello che hai detto.
- Quello che ho detto che?
- Riguardo i vecchi... che non ce li fanno stare.
Mendoza si irrita facilmente se lo si disturba mentre sta sistemando i suoi panini all'olio imbottiti di tonno e pomodoro. Osserva l'altro darsi da fare, chino sui boccali con il canovaccio pulito.
- C'è una legge qui - riprende a sistemare i panini - che vieta loro di girovagare per la città.
- Ah... e dove vanno a finire?
- Nei cimiteri.
- NEI CIMITERI?- Si volta di scatto facendo cadere in terra una pinta che ora è una ex-pinta e che probabilmente non sarà mai più una pinta.
- Cazzo.. scusa...
Mendoza non si scompone.
- Pulisci e stai più attento, hombre.
- Ma cazzo... uccidono i vecchi qui?
- Non dire stupidate. Certo che no.
- Ma allora che vuol dire che stanno al cimitero?
- Vuol dire che ci vivono. Questa legge risale ad una ventina di anni fa e dice che uno, quando diventa vecchio, se ne deve andare a sdraiarsi ai piedi della propria lapide, aspettando che la Vecchia Baldracca venga a prenderlo. Loro non possono fare niente altro che stare sdraiati. Qualcuno si porta dietro la televisione. I figli e i nipoti vanno li a piangerli, a trovarli, a portar loro dei fiori, o del tacchino.

- Guardami bene figliolo - disse Mendoza puntandosi l'indice agli occhi - Non c'è peggior morte per un uomo che l'essere dimenticato da vivo. Ma la gente non dimentica mai uno morto davvero, perché a farlo sarebbe peccato.

domenica 6 giugno 2010

Quelli che eravamo noi. Barcellona.

Posto questo, che non è più d'un ricordo. Ha la stessa storia di quest'altro Barcellona. E' lo stesso viaggio, con le stesse persone. Perché è proprio così: dietro il blog, c'è un'amicizia che parte da lontano e parecchie delle stronzate che leggete, le abbiamo fatte insieme. Parecchi di quei rum e cola, che sono un po' i protagonisti dei nostri post, sono andati giù, quando stavamo seduti allo stesso tavolo. Era giusto per dirvelo.




Di solito si parte dall’inizio. Ma non ci riesco, mi vien meglio partire dalla fine. E la fine, acclarata, conclamata, non è stata quando il tribolato e traballante aereo ha scagliato a terra le sue ruote una per volta. No, la fine, certificata e sottolineata del viaggio, è stata quando, messo piede a casa, ho acceso il televideo e ho letto qualcosa riguardo una legge sulla cortesia negli uffici e che si vuole la croce nel tricolore. Quella è stata la fine del viaggio. Il duro, traumatico, ritorno alla realtà e a questa terra che sovente indico con un’imprecazione. E allora viene ancora più facile bestemmiare per tornare indietro a scavicchiare qualche ricordo ancora caldo dal retrobottega. Per trovare un appiglio, un placebo che rilassi, e che bagni di nostalgia quel che è ora. Nostalgia vitrea e soporifera, spalmata lungo i vialoni di Barcellona, sul Mirò della Rambla, fra le finestre di Casa Battlò, sugli sterrati di Park Guell. Nostalgia fabbricata in bevute e risate, con gente che come me si dava il suo bel da fare per vomitarsi l’anima. Si, perché l’anima ce la siamo vomitata, o quantomeno ripulita. Una spugnata per lucidare quell’opaco dell’immobilità. Si arriva in Spagna e si sente il fremito di un punto zero, di un cambiamento, di una ragione fioca e vessata dalle circostanze, che vuole riemergere come una statua incastrata in un marmo non ancora scolpito. Questa era Barcellona per me e credo per molti di noi. In viaggio, si ha il piacere della scoperta, del ricercare ed in effetti c’è stato anche quello. Prima di essere soppiantato da un senso ancor più profondo, di quiete, posta nel centro di quell’aria gitana, di strade pervase di essenze vitali, di creatività quasi molesta all’occhio per quanto sgargiante. La quiete. La quiete di sentirsi a proprio agio, coccolato dai palazzi del Barrio Gotico e nella poca luce che ti delude le pupille, pure nella calura della mediana. E’ così che ti accorgi che sono proprio i colori ad avere sapore. Attraversandoli in estasi eterea, raggruppandoli con la mano in una manciata di sensazioni da tenersi in tasca, per almeno tutta questa vita. Dietro ad ogni goccia d’alcool c’abbiamo nascosto cose, che ci eravamo portati dietro. Bagagli senza etichetta e forse qualcuno l’abbiamo perso da quelle parti, stipato nei locali, in fondo ai bicchieri, tornando più leggeri. Abbiamo camminato e bruciato tutto, c’è stata voglia, tanta voglia. Dando un senso profondo al brusio e al tintinnare, al rumore del vetro infranto, dell’addormentarsi nel bagno, del salutare sconosciute, di parlare una lingua non nostra.
C’è Barcellona e poi il resto del mondo.
Forse per quei tre giorni, il resto del mondo, non c’è stato.

sabato 5 giugno 2010

Tetrapiloaforistica #6: Libero Arbitrio

Poter vivere da coglioni, quanto basta per dimostrare che la morte non è un elemento casuale nell'esistenza.

venerdì 4 giugno 2010

La dama, il giullare e il re 3: la dama che ogni giullare vuole

Già t'amo mia dama dal volto nascosto,
ma quel che chiedi forse è un eccesso:
guêpière e belletti non posson
nascondere un grosso difetto.

Son giullare non dama cortese
e a nasconderlo non bastano sete,
invero son donna come nel seicento
le attrici di un teatro inglese.

Ci fai moschettirei, mia dama celata
a noi che siamo puttanieri di vita:
a noi che ogni notte l'abbiamo amata
a noi che ogni giorno l'abbiamo pagata.

A farsi è cosa assai complicata
e più ch'esercito faremo masnada
lo farem di notte declamando per strada
poesia e prosa in incursion letterata.

Vieni se vuoi, io ti invito,
se non ci separano infinite distanze
e declameremo nella sera invitante
tutte le rime che fin qui c'hanno unito.

Ora che ho detto ogni cosa leggera,
o faceta o facile come fendere l'aria
parlerò con parole importanti
sfoggiando per te la mia faccia più seria.

Le parole son del mio sentir frutti insinceri
e si ingegnano a nascondere il vero
io le piego e le domo come posso,
ma tu scosta se puoi il loro velo.

Siamo maschere messe in vetrina,
siam campanelli, merletti, corona,
anche adesso è evidente mia dama,
ci fingiamo poeti parlandoci in rima.

L'anima ha un peso ridotto,
a guardarla son pochi i capaci,
e a girare postandola esposta
sovente ci taccian d'esser mendaci.

Per questo io resto giullare:
per intessere arazzi di fiato
che infiltrin la mente distratta
di un pensiero che lasci basito.

Ricorda il giullare è l'uomo più attento
fa si che la burla non susciti offesa,
conosce l'anime dagli occhi che guarda
e ogni parola che dice la pesa.

Non dico più niente ora basta
che ho brama di tue nuove parole.
Trepido attendo una risposta
dalla dama ch'ogni giullare vuole.

giovedì 3 giugno 2010

Barcellona

Posto qui una cosa che ho ritrovato, scritta poco prima di aprire il blog


Ero al porto, in una bella giornata di novembre, a guardare le barche passare, a godermi il sole, disturbato dai turisti, che guardano, indicano, ma non vedono mai l'anima del posto.
Ero sulla terrazza del parco, disturbato dalla folla, a respirare l'aria pulita che c'è lassù, abbracciando con lo sguardo tutta la città.
Poi ero nei vicoli, nelle strade, nella metro, nei locali, nelle discussioni, nella musica, nelle manifestazioni, nelle esibizioni degli artisti di strada, nella cordialità innata di chi mi circondava, ero nei sorrisi, infiniti, caldi, sinceri, onnipresenti.
Ero, e me ne rendo dolorosamente conto solo ora che sono di nuovo distante, tornato a casa.