mercoledì 14 luglio 2010
Dimo Cristiano (Diciamo Cristiano)
Guarda con gli occhi dell'Amore.
Magna con una bocca tutta sua.
sabato 10 luglio 2010
Bucie e Parole
Nun sa de ‘n cazzo
E chi campa de bucie
Se more de fame.
‘Na bucia, è ‘na rosa colle spine
Drento ar petalo
E quanno che scopri ch’er profumo
Non c’è mai stato
Dai indietro er voto,
Senza c’hai bevuto.
La parola, ce l’hanno tutti
E colla parola, ce fai l’omo.
E pure er porco, er somaro
Er cane e la mignotta
So’ boni a datte ‘na parola;
Che tanto solo se la apri
Ce trovi dentro un sasso
Che pesa tale e quale
A quanto pesa la persona.
Se la bucia e la parola
Se incontrano pe’ sbajo
Ar tempo tutto s’incanta
- Ce lo sapemo ch’è signore –
La cosa se smove da sola
Se risorverà st’inguajo
Finchè carta non canta
E s’arisorverà st’errore.
Colle bucie da ‘na parte e dall’altra le parole
Finalmente capiremo, che cazzo so’ ‘sti mali
Se metteremo le scarpe, stavorta senza sole
Distingueremo l’omini, da tutti ‘sti maiali.
venerdì 9 luglio 2010
Venerdì pomeriggio
Saluto l'ultima collega che se ne torna a respirare guazzetto d'oltrepò.
Guardo la lista delle cose da fare: vuoto cosmico, con tre ore di anticipo, entrando sghembo e sorridente con un'ora di ritardo.
Venerdì pomeriggio.
Testa elettrica e presa bene, volume delle cuffie da lesione del timpano e piede che tiene il tempo; lo stesso disco da una settimana, che qua non siamo monomaniaci.
Venerdì pomeriggio.
Il pensiero tranquillizzante di sapere la casa in ordine e mediamente profumata, che ieri sono passati a cena i miei, e sono stati preventivamente puliti anche gli interstizi; ho lasciato anche un paio di massaggiatrici erotiche in cucina come esca, casomai passasse nei pressi Bertolaso con protezione civile al seguito a miracolarmi il cataclisma culinario; fino a domenica sera la porta della cucina comunque non la apre nessuno.
Venerdì pomeriggio.
A bullarmi sul blog di star preso bene, e ci sarebbero da pormi ma...
...ma ho trovato il posto dove voglio stare, fatto di sole e musica che ama farsi ballare, birra ghiacciata e le ragazze, per favore, leggere edoniste e sornione come gatti al sole, che mi sono fatto spazio dentro e l'ho riempito di superficialità, e in questo io sto da dio.
Buon fine settimana, statemi bene.
domenica 4 luglio 2010
Tetrapilofonica #2: Pendulum - Immersion
Guardi i colleghi di fronte a te mentre le note iniziano a comprimerti la scatola cranica, e non ce n'è una che voglia scorrere via facile.
01 - Genesis. 1:09
Ti chiedi quanto di più ti aspettavi dall'intro del disco. Ti stupisci di quanto di meno ti aspettavi.
02 - Salt In The Wounds. 6:39
Metti in pausa. Con calma. Con, cazzo, calma. Rallenti i battiti, riprendi a respirare, fermi i piedi che intorno ti guardano strano. Aspetti un minuto, ti rilassi, spingi di nuovo play.
03 - Watercolour. 5:04
Primo singolo estratto dal disco. Ti batti tre colpi sul petto e reciti il mea culpa. L'unico modo possibile per il primo ascolto di questo disco, senza soffrire e senza passare per pazzo richiede un prato isolato, con il volume a slabrare i coni delle casse. Pausa. Sigaretta. Decisamente.
04 - Set Me On Fire. 5:03
Pausa. Sigaretta. Ancora.
Poi in apnea, fino alla fine del disco. E non poteva essere altrimenti, visto che il disco si chiama Immersion, ed è l'ultimo devastante lavoro dei Pendulum.
L'ultima volta che la musica ti ha colpito così forte era all'Alpheus, quando hai visto il rap romano fottere con le chitarre distorte. Era la presentazione di Heavy Metal, e tu quel giorno sei esploso con tutto il locale.
Per un'ora e sette minuti tremi la tua voglia di ballare.
Per un'ora e sette minuti mordi a sangue le labbra per la voglia di urlare.
Per un'ora e sette minuti hai il cazzo dritto e il fiato corto, mentre la musica fa quello che deve fare.
sabato 3 luglio 2010
Tetrapiloaforistica#14: Perchè Bloch non faceva parte del WWF
Una donna sta davanti a una vetrina, guarda scarpe di lucertola scamosciate. Passa un uomo, guarda la donna, e così ognuno si prende un pezzettino della Terra dei Desideri" .
(Ernst Bloch)
"A parte la Lucertola."
(Danilo Cipollini)
mercoledì 30 giugno 2010
Da un discorso con Tazio: misoginia evolutiva
"Quindi mi sono preso una gatta."
"E com'è?"
"Mi sveglia alle tre di mattino, mi salta addosso, mi riempe di graffi e morsi e poi, quando è soddisfatta, pretende le coccole prima di addormentarsi sul mio lato del letto."
"Praticamente una donna."
"Già, gli manca solo la parola."
"Io te lo dico sempre che sopravvaluti il pollice opponibile"
Tetrapiloaforistica #13 : Corrispondenze (sforando)
lunedì 28 giugno 2010
Non saprò cosa hai fatto, William
- C’è la storia dell’uomo morto, fra quelle che so. Que pasa, amigos? Non ci vuoi credere? L’ho visto una volta, te lo giuro sui miei guevones. E’ la storia di un uomo che non tiene nome, ma se una scorreggia facesse scintille, ecco, quello sarebbe il suo nome. Se è una storia triste? No, hombre, non lo è. Non c’è nessuna er.. come dite… es… romantica. Non c’è sogno, in quel che dico, non c’è passione, y sientimento. Non c’è passato nemmeno Dio, in questa storia, intiende? Tutto era nove, dieci anni fa. Forse venti, non che importi poi, in questo buco di culo di posto. Ero seduto proprio li, dove sei tu adesso. Era caldo, torrido, come siempre, ma di più. Le mie chiappe erano sudate, e avevo bevuto solo il giusto, quel che basta a sopravvivere. Al tempo eravamo dieci peccatori e due preti in tutto il villaggio e il mezzogiorno stava zitto come un bastardo. Ma non quella volta. Quella volta era vento, y ronzio. Y tintinar.
L’orco guardava l’ospite, sornione. E con lentezza indicò la porta del saloon, l’avventore seguì lo slancio con gli occhi. Il mondo stava fuori ed il deserto con il suo niente, si muoveva un passo dietro al tempo. C’era rosso e liquore per cielo, la sabbia in turbine danzava gitana e insolente. Allora, l’ospite sentì.
Y tintinar.
Ma non era come se l’aspettava. Non era uno scampanellio. Sembravano invece nacchere. Secche, regolari, dipinte all’orecchio con mano ferma. L’ospite mise mano all’impugnatura di sandalo d’una pistola precisa, e si precipitò all’uscio. La campana vibrò i suoi rintocchi come fossero preghiere. Come sono fatte le parole, così arrivò l’aria, ma muta.
- Non.
Il forestiero mormorò orrore nel sentire il suo naso violentato dal fetore della carne marcia. Alla sua destra, una ragazza sulla veranda, nel velluto e nel raso, all’ombra dei suoi stessi capelli rossi, fermava i minuti stando immobile su una seggiola a dondolo.
- Cosa? – Le chiese, ma troppo tardi. C’era già lo scheletro, in fondo al viale. Piccola bestemmia scintillante, sepolta nel cinturone della pistola, cappello e bavaglio, stivali consunti. L’orco si gettò fuori dal locale ringhiando le parole, come si vomitano le sbronze. Annuì a quelle ossa e sparò fulmini imprecisi, schioccando le dita. Ma di ben altra abilità sono capaci gli uomini soli e sparano dritto, nel centro del cuore. Così l’uomo morto non si fece pregare e lasciò alla neve che prima o poi sarebbe venuta, un cadavere nuovo. Il fumo della canna, così sinuoso parlava di tutto quello che un’espressione d’un teschio non può dire. Lento, quello, arrivò al saloon, col giovane ospite che si ritrovò non più così giovane nel vederselo passare ad un palmo, così pieno di niente. Lo scheletro prese i capelli della ragazza e una commovente faccia putrefatta venne scoperta. Se la trascinò via ghermendola per quel lungo rame; i piedi di lei, che tracciavano l’assoluzione per la terra asciutta, smuovendola dalla sua ignavia, perdevano tessuti e vermi. Così il forestiero rimase in quel posto, per sempre, solo con il pensiero che spesso l’amore non somiglia all’amore.
Questa è la storia di Willie.
domenica 27 giugno 2010
TETRAPILOSPITATA #1: Roberto Procaccini
DE FALLATIONIS CONSOLATIONE IN ARTE PORNOGRAPHICA
[ovvero "avere un cazzo per idrante"].
di Roberto Procaccini
L’arte è specchio della civiltà che la esprime. E’ piena di simboli, valenze, riferimenti a schemi culturali più ampi, all’immaginario tutto. E’ così, sempre, in qualsiasi epoca e di fronte a qualsiasi grado di complessità.
E’ per questo che esistono attualmente scienze quali la semiotica, la simbologia, è per questo che si registrano moltitudini di studi interdisciplinari sulla comunicazione attraverso immagini, suoni, parole. Perché un artista, in maniera più o meno consapevole, infonde nella propria opera più di quanto esplicitamente espresso, e allora dopo tocca ricostruire e interpretare tutti i collegamenti.
Oggidì, per ragioni che chi scrive non riesce ancora a comprendere nonostante l'impegno profuso, si incontrano grandi difficoltà a riconoscere pari dignità (e soprattutto ad applicare gli stessi strumenti) alla pornografia.
Eppure è chiaro che proprio una branca della cinematografia che si interessa di un argomento così delicato (l’essere umano - per lo più maschio, ma non necessariamente - e i suoi pruriti genitali) offre degli spunti di analisi eccezionali.
Nel nostro piccolo si proverà ad infrangere questo muro, e a mettere sotto lente di ingrandimento un aspetto della pornografia in particolare: l’emergere negli ultimi anni di una certa vena “pietistica”.
Intendiamoci. Il porno è una rappresentazione artistica di un realismo esasperato, a tratti esagitato, con vette che toccano spesso il surreale, di una delle principali attività dell’uomo: il Sesso. Lo si definisce in questo modo perché è chiaro che non solo è fortuna di pochi avere certi attributi, ma è pura fiction l’idea che possano essere universali certe attitudini.
Il sesso del porno è molto distante da quello praticato dalle persone comuni lontano da set, fari e obiettivi. Proprio qui sta il suo appeal (sebbene il genere “amateur” – dove ragionieri con la panza si fottono le mogli in pensione in 27 secondi netti – sia sempre molto apprezzato) : marcantoni con membri di pari dimensioni del tronco di un bambino di dieci anni, generose ragazze in grado di ospitare nei propri orifizi senza particolare difficoltà plurimi arnesi naturali e meccanici, tenuta allo sforzo aerobico e anaerobico fuori dal comune (anche se i più smaliziati sanno che l’arte del montaggio in questo aiuta molto), disposizione al sesso senza se e senza ma (soprattutto senza mal di testa, bambini che possono sentire, stanchezza, pigrizia o altro) etc etc. E’ questo, e molto altro, l’offerta del porno.
Si sarà però notato che il porno è un cinema molto attento a non disturbare il proprio pubblico. Emerge chiaramente dal fatto che nei film zozzi il ruolo dell’attore maschio è limitato unicamente a quello di portatore di cazzo (eretto). Le inquadrature sono tutte destinate alle attrici (ai loro sguardi, ai loro sospiri, al loro corpo, alla loro fica). Sono le attrici il vero protagonista principale: sono seguite dall’inizio alla fine, sempre al centro dell’obiettivo. L’interprete maschile, invece, compare giusto nelle inquadrature più ampie, altrimenti è destinato a comparire dall’ombelico in giù, mentre il suo braccio armato compie il proprio dovere. E’ veramente raro trovare un regista che decida di dedicare un piano sequenza all’attore nel proprio amplesso: e, quando capita, lo si trova di cattivo gusto, un fotogramma sprecato. Il primo piano dell’uomo che geme viene valutato come una caduta di stile. E, d’altro canto, se il pompino è un must ineliminabile da qualsiasi pellicola porno (prima, dopo e a volte durante l’amplesso), molto più raro è incontrare un cunnilingus.
Ed è proprio sull’onda lunga di questa tendenza, dunque, che nasce un sub-filone particolare. Questo, secondo chi scrive, nasce dalla volontà di mettere assolutamente a proprio agio uno spettatore che, altrimenti, potrebbe essere turbato dall’atletismo di gonzi ben più dotati e capaci di lui. Sicuramente chi legge (e finiamola di fare la parte “e no, io film porno non ne guardo!”) avrà sentito parlare dei POV. Questi sono dei filmati, spesso brevi, solitamente privi di trama e centrati unicamente sull’action, dove in soggettiva (POV è l’acronimo di Point Of View) il porno-attore riprende il proprio amplesso. Ce ne sono di completi (dove, ovvero, è filmato un rapporto vaginale), ma il più delle volte, e non è un caso, i POV riguardano solo seghe o pompini.
Riepiloghiamo. Uno spettatore carica il video e si trova 7-8 min di inquadratura fissa: di fronte al bacino e alle gambe dell’attore che tiene la telecamera (ci risiamo: dall’ombelico in giù), una o più ragazze espletano il proprio lavoro.
Si tratta di un vero e proprio atto di democrazia e cortesia. L’inquadratura soggettiva non serve tanto a favorire l’immedesimazione tra spettatore ed interprete, quanto a neutralizzare al massimo la sensazione di invidia del pene e inadeguatezza che in una persona possono suscitare le imprese di Peter North. Nei POV l’attore finisce per essere unicamente il proprio cazzo: niente di lui, se non la voce, arriverà in video. E per di più un cazzo dritto, ma perfettamente inerte: non un colpo di bacino, non un’impresa sportiva, niente di tutto ciò. Niente che possa far pensare allo spettatore “io questo non lo saprei fare”. In realtà i POV potrebbero essere girai con dildo vibratori, data l’assoluta passività dell’uomo, ma non lo si fa perché, ovviamente, ciò renderebbe il video meno interessate.
L’attore rimane immobile, seduto o sdraiato, mentre l’attrice lavora di gomito, fino alla liberatoria sborrata conclusiva. Lo spettatore non si trova di fronte un rivale che sottolinea la sa medietà erotica; anzi, potrà pensare con una certa libido e soddisfazione “anche io saprei farmi spompinare in questo modo”.
Che cosa impariamo, allora? Che in questa società dello spettacolo, del business, della competizione sfrenata, del tutti contro tutti, dell’homo homini lupus, del mors tua vita mea, del liberismo sfrenato, c’è ancora spazio per la misericordia e per la comprensione. Come se i giocatori professionisti di calcio organizzassero una serie dove, tra colpi di tacco e maestrie, non si riesce a correre per 90 minuti, ogni tanto ci si fanno due risate, tra primo e secondo tempo ci si prende a gavettoni e la diretta sky finisce in pizzeria tra rutti, sbronze e scoregge.
Un cinema nato sull’esaltazione del corpo, delle misure, di prestazioni fuori dal comune, dove il gigantismo e l’ipertrofia sono la norma, che decide di fare un passo indietro per andare incontro al proprio pubblico.
In questo mondo c’è ancora spazio per la poesia.
venerdì 18 giugno 2010
Album di Famiglia. La Nonna.
Da uno scritto ritrovato dietro una fotografia che Tazio Martini portava sempre con se. Queste parole vengono intese dai più come gli ultimi pensieri scritti della nonna di Tazio, scomparsa nel Settembre del millenovecentosettantuno.
In odore di lacrime in partenza, sfoglio tutti i cristi dei miei ricordi, ora che il suono forte della gola, arride alle costole che scricchiolano e infrangono il petto mio - pare che loro siano in più coraggio di me - . Le carezze del grigio si respirano quando Settembre muore; lo spazio dell’aria lasciato ai seni, ai polmoni che sobbalzano s’io singhiozzo. E’ la riva che mi sommerge a soffocarmi dei miei stessi sensi, mentre la spuma si prende gioco di tutto quello che pensavo mi fosse dovuto, avvolgendomi i piedi fino alle caviglie, per poi fuggire e ritornare, come in una vecchia canzone, chiamandomi, mordendomi, velando di lieve la coscienza, che ancora mi sento in diritto di chiamare tale, non so per quanto ancora. Lo sguardo che svolge quel incompiuto si infrange, senza soluzione, verso l’immenso dell’ignoto tutto attorno. Ho poca voglia di restare in piedi, meno ancora di rialzarmi. Quando piansi per la prima volta, la colpa fu di un amore finito. La seconda, fu per un amore morto, sepolto e inchiodato da una lapide. Ma cosa posso fare per un amore disperso? Forse aspettare ancora che sia la guerra a riportarmelo. Chiederlo indietro ad ogni soldato che è per la via. Mangiare in tremiti ogni necrologio, carezzare foto di giornale, aspettando notizie. Mio dolore, ti ho donato in pasto questa metà di secolo, tanto tempo da confondere la vita, la storia e la leggenda. E se le membra avvizziscono, non dimentico il sapore del tuo dire. Siamo così piccoli, che per risuonare nel vuoto, urliamo preghiere, che ancora non accontentano questo cielo di carta e fuliggine. Il mondo si muove sotto ai miei piedi d’avorio, o sono io che cammino, non ho modo di capirlo, mentre vengo a prenderti, nel fondo di questo mare che m’ha aspettato quanto io aspettavo te. Io t’avrò, tu avrai me, E tutt’attorno un applauso di luci, mentre balleremo la nostra canzone, nuotando a diecimila anni di profondità.
Questa Non E' Una Storia Porno
La risacca, s’era portata un cartello da Bisanzio nell’anno più o meno appena svaccato. Nuvole selvagge aravano la terra, in un nero seppia antico, da averlo in fotografia. Decrepite bisbetiche sfidavano la vita, a colpi di malocchio, sussurrando il malcontento di un’esistenza assente. Sputavano controvento preghiere sboccate, così strette in mezzo ai denti da vibrare giù per i campi.
Le vecchie, prima degli altri, lo videro.
Montarono i denti a nacchere e suonando l’alleluia si mossero, come l’ombra curva d’un corpo solo, verso quell’evento che la pietà di Dio concesse loro. Scivolarono, fluttuarono, mani giunte, come meduse terrene, fino ad arrivare in ciocche di cipiglio dove che il mare salivava stanco, e moribondo si ritirava, per esser ventre e carnefice di qualcuno che qualcuno non vuole essere più. L’acqua carezzò perl’ultima volta il bagnasciuga, allontanandosi assieme alla sabbia, la via, i germogli, scappando in eleganza da sotto i piedi delle austere, lasciando la scenografia al castello cittadino, di grigio vestito, dalle orecchie in drappeggi rossi. Mura senza fortuna, cui hanno tolto il senno. Le megere, avevano il sospiro sopito fra le guance, ad appassire in odore di aglio, impastato, mentre avide leggevano, tenendo ognuna con la mano il verbo di cartone. Se le parole avessero le gambe, fuggirebbero dal mio dire, da tanto turpiloquio ne seguì. Invettive e maledizioni scapparono al vento, mentre esse lanciarono con inaspettata forza, quello scritto oltre le mura. Questo cadde nel cortile, senza frignare, si riposò nella terra per un ora mezza, a spogliare il cielo con i pensieri, fino a quando lo trasse in aria una mano di uomo, così forte da sembrare sincera. Era il Cavaliere delle Righe Storte, il più nobile degli sconosciuti. Senza complimenti, il cartello si innamorò di lui. Occhi di paure ben celate, capelli di Bretagna, e voce, ah che voce, fatta di spezie orientali. Senza pentimenti, allora si lasciò leggere, li, su due piedi, sfumando pudore in voluttà. La rivelazione che colpì il cavaliere, non colpì la cavalcatura, che partì sotto suggerimento del frustino. In quel giorno vigilia di niente, il cavaliere prese il cammino, portando seco il cartello, in una muta di paesaggi, volarono il mondo, arrivando ben due volte dove fumava il vecchio culo del sole. Trovarono la casa di una bambina e dopo aver bussato alla porta, il cavaliere poggiò sullo zerbino il cartello innamorato e fuggi senza voltarsi, piangendo lacrime di liberazione. La bimba aprì la porta. Era fatta di vetro e sorriso, ma di un vetro che sapeva di carne e di un sorriso che parlava tristezza. Aveva tutta la vita di dietro, dentro la casa, ammucchiata in sogni tremanti, divisa in sacche da viaggio mai usate. Spiravano colonne di nostalgia dal caminetto acceso, rubando all’aria l’immobilità del freddo. La bimba raccolse il cartello, per non vedere disordine, ma non sapendo leggere, con cortesia lo ripose sul tavolo. Lui si accomodò su un morbido centrino godendosi il sollievo alla schiena, provata da tanto girovagare. Lei si accostò al telefono chiamando il dottore, esprimendosi in versi di donna, controllando nella tasca il suo pacchetto vuoto di Lucky Strike. Il dottore comparì poco dopo, giù nell’orto, mangiando un’arancia con la buccia. Con il naso poggiato sotto gli occhiali ed una figura così minuta da poter rendere ridicolo il senso stesso del termine, si apprestò in fretta e furia a visitare il cartello, leggendolo con scienza esatta. Mentre il volto dell’uomo si preoccupava di non preoccuparsi, il cartello avrebbe voluto chiedere notizie sulla sua salute, ma gli riuscì appena di rimanere com’era sempre stato nei confronti del mondo: disincantato e senz’altro da aggiungere. Il dottore era sveglio, nonostante non l’avesse mai dimostrato. Con un cenno, chiamò le vecchie dall’altra parte del mondo e sussurrò al cavaliere di prestargli attenzione, dovunque esso fosse. Organizzarono in fretta il da farsi. La mattina nemmeno fece in tempo a scalare l’orizzonte, quando li sentii urlare, tutti assieme, sotto la mia finestra. Aprii gli occhi e mi ritrovai sveglio che fornicavo col cuscino. Balbettai il passo di pigiama fino ai vetri, che aprii a fatica. E in effetti c’erano proprio tutti; la bambina, le vecchie, il cavaliere, il dottore. L’unico restio ad urlare era il cartello. Fecero proclami e minacce, suppliche ed invettive, fintantoché, non dovetti cedere. Avrei rimesso a posto le loro vite, mi sarei ripreso cartello e maledizione. Fu il cavaliere, più prestante di altri, a lanciarmelo. Mi sporsi considerevolmente e con una mano riuscii ad afferrarlo. Era unto, insabbiato e leccandolo sapeva di sale. Non come quando l’avevo scritto. Salutai tutti con la mano e mi sedetti alla scrivania, sospirando l’emozione d’abbandono che provavo. Così li aiutai. Resi loro una morte degna, cancellandoli da ogni storia scritta, distruggendo ogni traccia della loro memoria. Ne salvai solamente due. Una, spero un giorno non mi venga a trovare, spero rimanga lontana da questo posto, e spero che arrivi a sera con i piedi dolenti per i chilometri lasciati alle spalle. L’altro è qui con me, ora pulito ed appeso al suo posto, con il suo petto che a tutti dice “Scemo chi legge”.
Tetrapiloaforistica #12 - Causa e Effetto
Tazio Bruno Martini, "Le ineccepibili ragioni del gin tonic
mercoledì 16 giugno 2010
Pugni
Sperando che rispolverarlo sia di buon auspicio per l'estate che viene, è un piacere offrirvi...
PUGNI
un racconto di
Danilo Cipollini
a B.
Spogliatoio non è solo un sostantivo singolare maschile. E’ un sostantivo singolare maschio. E’ come Rasoio, oppure Coltello, che ne so. Giornale, o Teatro, non fanno lo stesso effetto. Quelli sono solo sostantivi maschili, semplici, pura distinzione di Genere.
Spogliatoio, invece... Spogliatoio è Uomo, non solo Maschio, porta con se’ immediati ricordi di odore aspro di sudore, e candeggina, e dopobarba da due soldi. Porta idee di muri e macchie gialle, di orinatoi, di asciugamani umidi.
Sauna, invece... beh Sauna è femminile e femmina. Calda, umida e avvolgente...più Femmina d’una sauna non c’è davvero niente.
Dalla sauna sfilo un asciugamano che ci ho lasciato dentro qualche minuto e caldo e bagnato me lo appoggio sul collo per rilassare i muscoli. Poi mi siedo sulla panca di legno, i gomiti poggiati sulle ginocchia, lo sguardo fisso verso il pavimento bianco chiazzato, e resto in silenzio in questo spogliatoio mascolino e asettico a lasciare che il sudore mi scorra addosso. Sento le gocce scivolare dalle tempie e scorrere verso il naso, rigare gli zigomi, fermarsi a giocare qualche secondo sulla punta del naso e poi cadere a terra. Nel silenzio che c’è, ogni goccia che cade sembra un’esplosione.
Mi concedo un quarto d’ora di tranquillità ogni volta che devo salire sul ring. Non che siano grandi incontri, i miei... non sono un pugile professionista. Sono poco più che allenamenti con qualche amico. I pugni, però, sono sempre veri. In uno sport come la boxe il concetto di allenamento ha una valenza relativa... quando giochi su un terreno le cui regole sono distruggere l’essere umano che c’è davanti a noi, non c’è modo di edulcorare la realtà. Non puoi chiedere a un pugno di non stenderti, o di non farti male.
L’orologio segna le 22, è ora di andare di là. Stendo la mano lentamente alla mia destra e afferro le fasce per prepararmi a salire sul ring.
Di tutti gli strumenti che la boxe ti costringe a frequentare, le fasce sono senza dubbio le mie preferite.
Due metri e mezzo di poliestere e cotone, con un anello di stoffa da un lato e un cinturino di velcro dall’altro.
La fascia rende un pugno duro come un sasso. Protegge la mano, stringendo le nocche per evitare che si allarghino e indurendo il polso, evitando che si pieghi e subisca sforzi inopportuni e traumi conseguenti.. Al tempo stesso, comprime e stringe ossa e carne in un unico cono rigido, rendendo un pugno uno strumento perfetto.
Ma non è solo perchè sono utli che mi piacciono... Ci vedo dentro qualcosa di sacro, un retaggio del passato. Gli antichi sacerdoti greci indossavano fasce prima di officiare i riti per gli Dei. Quelle bende venivano conservate e difese anche con le armi, se necessario. Era da quelle fasce che quegli uomini sacri prendevano la loro forza spirituale.
Su un altare ben più profano celebro il mio, di sacrificio.
Comincio così il mio rito pagano, afferro la prima fascia, fisso l’anello alla base del dito medio e inizio a farla girare. Tre giri ben stretti intorno alle nocche, poi scendo gradualmente e inisto sul polso,
Tredici giri e la mano è pronta. Altri tredici, e sono pronto ad andare.
Le mani si fanno compatte, e le senti appesantirsi, e contemporaneamente le senti come se fossero invicibili.
Prendo i guantoni, li metterò solo all’ultimo momento.
Mi alzo e cammino veloce fuori dallo spogliatoio. Come al rallentatore spingo lo sguardo fuori dalla porta mentre la apro. La luce del corridoio mi cattura e non penso più a niente.
Dal momento stesso in cui sono fuori di qui, è già boxe.
Quattro ore dopo, sdraiato nel mio letto, fisso il soffitto respirando piano. La luce filtra dalle persiane semichiuse, e illumina di strisce tenui tutta la stanza, rendendo il nostro mondo zebrato. Sento caldo sulla spalla, su cui scendono i tuoi riccioli biondi, ma è una splendida sensazione. La tua testa ha trovato un appoggio comodo fra spalla e petto, e senza guardarti posso sentire il tuo corpo muoversi al mio fianco. Sollevi una mano con un gesto lento, e bellissimo, e la porti sul mio naso un po’ ammaccato dall’incontro di stasera. “A lui è andata peggio”, ti dico. Sorrido piano e tu ti giri a guardarmi. Mi baci per impedirmi di dire altre cose fuori luogo. E io sorrido un po’ più forte, perchè è proprio questo che mi piace, di te.
Lascio penzolare la mano sinistra fuori dal letto finchè non artiglio la scatola dei sigari e l’accendino. Accendo un mozzicone di Toscano – quella di fumare a letto è una pessima abitudine che ho preso da poco – e soffoco un colpetto di tosse quando la prima boccata di sigaro mi secca la gola come se fossi in pieno deserto. La tua mano mi scorre sul petto e poi inizia a scendere verso l’addome. All’ombelico si ferma e torna su, con un movimento circolare, risalendo dall’altra parte del busto, e ricominciando. Una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, tredici volte.
Ed è lì che finalmente è tutto chiaro.
Non credo troppo nel destino e ho tanta fantasia. Per questo ho capito che tu sei le fasce della mia vita. Come la fascia impedisce al pugno di farsi male e lo rende più forte, tu stai facendo la stessa cosa col mio cuore. Quelle tredici carezze mi hanno fatto capire che si, è proprio così.
Chiudo gli occhi e spengo il sigaro in un bicchiere. Sfrigola un po’ a contatto con l’acqua, è il rumore di un istante ma nel silenzio lo si sente bene.
Non ti guardo e mi chiedo che rumore farà un cuore che diventa più forte.
venerdì 11 giugno 2010
Chiudetevi in casa e covate rancore.
Non manifestate.
Non portate avanti battaglie civili.
Non scendete in piazza.
Non aderite a proteste sul web.
Non lo fate, è un modo inutile per sfogare la vostra preziosissima rabbia, e a loro fa troppo comodo.
Chiudetevi in casa e covate rancore.
Fate salire la rabbia.
Siate scontrosi, nervosi.
Non cercate sfoghi.
Maturate la vostra indignazione.
Chiudetevi in casa e covate rancore.
Loro sono maggioranza e opposizione.
Loro sono stato e antistato.
Loro ridono mentre noi moriamo.
Loro fottono mentre noi perdiamo il posto.
Loro si arricchiscono mentre noi non sappiamo più come andare avanti.
Loro ci tolgono ogni diritto.
Chiudetevi in casa e covate rancore.
Poi, quando la rabbia non è più controllabile, fate, facciamo quello che deve fare ogni persona civile in casi come questo.
Smettiamo di essere civil. Con un minimo di lucidità, se possibile, le forze dell'ordine schierate in tenuta antisommossa non hanno colpe, e prendersela con loro non risolve un cazzo.
Facciamo ciò che dobbiamo, con rabbia e con odio, ma mossi da amore per noi stessi e per il nostro paese; facciamo ciò che dobbiamo, da civilissime bestie.
Il linciaggio è un atto dovuto, civile e soprattutto risolutivo.
Tutto il resto è curare il cancro con l'aspirina.
Quindi chiudetevi in casa e covate rancore.
Ma per dio fate in fretta, che riparare i loro danni diventa ogni giorno più difficile.
Tetrapiloaforistica #10: ULTERIORI riflessioni sull'Amore
talvolta, l'Amore è solo un apostrofo rosa
fra le parole "Succhia" e "Più forte"
Tetrapiloaforistica #9: Riflessioni sull'amore
credo proprio che dovremmo vivere insieme.
Sei la persona che odio di più al mondo. Dopo me
giovedì 10 giugno 2010
Soltanto questo
Alessio balla guardando Marina.
Marina balla guardando Alessio.
Niente altro conta per loro, soltanto questo.
Gli occhi dell'uno e dell'altra raccontano la stessa identica storia: Marina impiega un istante, e la storia finisce di botto; Alessio parla ed è un fiume, ma non arriva comunque alla fine.
Hanno levato i calici mille volte di troppo, conoscendosi sull'orlo del mare, si sono detti ogni cosa importa, e non sono servite che venti parole.
Adesso camminano insieme, l'uno imitando i passi dell'altra, non sono più soli nel cuor della terra, e la sera non fa più paura.
Ora Alessio balla la vita per gli occhi di Marina, e Marina balla la vita per gli occhi di Alessio.
Niente altro conta per loro, soltanto questo.
mercoledì 9 giugno 2010
Tetrapiloaforistica #8: Alta gradazione logica
Otorinolaringoiatria
La signora Isabel Allende è una donna.
La signora Isabel Allende è una scrittrice affermata.
La signora Isabel Allende ha venduto milioni di libri. E questi libri li hanno comprati milioni di uomini, si, ma anche e SOPRATTUTTO milioni di donne.
La signora Isabel Allende scrive da cani. Ma NONOSTANTE questo, quei milioni di donne continuano a comprare i suoi libri.
Cristosanto, DEVE aver capito qualcosa che a me sfugge. DEVE.
Allora, mi fido.
La mia fidanzata mi ha denunciato per tentato uso improprio di oggetto fallico in lattice. Poi mi ha piantato e è scappata col suo otorino.
martedì 8 giugno 2010
Tetrapiloaforistica #7: Anatomia & cigarettes
in effetti, l'esito di una giornata, molto spesso dipende da quei dieci minuti che seguono caffè & sigaretta, e precedono il resto della tua vita
Se la rossa vuole ucciderti, ci pensa la bionda a salvarti la vita
Ma l'hai bevuta.
La birra di troppo, una rossa; tutte quelle di prima le avresti rette tranquillamente, ma questa rossa no, semplicemente non potevi, e qualcosa, dentro di te, cede.
Ti metti in macchina, la direzione è casa; ti piomba addosso tutto: una giornata al mare, un aperitivo in centro, una cena, un dopo cena e un concerto. E lei, la rossa che vuole rapirti la vita.
La strada provinciale sfuma nel buio e sfoca nell'alcol; le curve sembrano sempre un pochino più dritte, i rettilinei si fanno sinuosi; gli occhi si fanno pesanti, i sogni si mischiano alla realtà.
Vorresti fermarti, ma un posto decente per accostare non c'è, e tutto quello che vuoi, adesso, è un letto in cui crollare fino a domani.
Lo sguardo rosso di un semaforo ti convince a poggiare il piede sul freno; sei fermo, occhi cinesi che tieni aperti a stento, e sai che una volta ripartito sarà tutto infinitamente più difficile.
Ed è una bionda che viene a salvarti.
Una macchina si ferma al semaforo accanto alla tua, e tu non registri nemmeno l'informazione.
Poi ti senti chiamare, e lei, mezzo busto fuori dal finestrino, ti chiede se hai da accendere.
Il verde scatta, dietro di voi qualcuno suona impaziente, tu gli dici di accostare con te e riparti.
Accosti, qualche metro dopo il semaforo e aspetti, seduto, di vedere quel che succede.
L'altra macchina accosta, qualche metro davanti a te, e tu puoi gustarti lo spettacolo di lei che scende e ti viene incontro, con l'andatura incerta degli adoratori di Bacco, stretta in un jeans e una maglietta che non ricorderai mai con certezza se è azzurra o verde o quello che è. Arriva di fianco alla macchina, occhi cinesi che incontrano occhi lucidi, del colore di una bottiglia di gin Bombay Sapphire, la massa bionda dei suoi capelli illuminati dalla fiamma dell'accendino.
Poi ti dice che sei la persona più gentile che abbia mai incontrato, allunga una mano dentro il finestrino e ti accarezza la testa, miele caldo su una ferita aperta, brucia dove tocca, e intorno cola piacere.
Se ne va, irreale e improbabile così come è comparsa, lasciandoti in dono quel tanto di lucidità che ti serve per riparare nel porto sicuro di un parcheggio sotto casa e svenire con calma.
Ti svegli ridendo nelle prime luci dell'aurora, e mentre barcolli verso casa ringrazi la tua personale divinità fatta di eventi improbabili, che questa notte è venuta a salvarti la vita tracciando la fine di un cerchio, a concludere un capitolo della tua vita.
Una ragazza dai capelli rossi ti stava mangiando la vita, e tante, tante birre bionde ti hanno tenuto in piedi.
Troppe birre rosse volevano rubarti la vita, e una ragazza bionda è comparsa per trattenerti tra i vivi.
lunedì 7 giugno 2010
La Festa Dei Morti - Estratto -
Nota: Il titolo dell’estratto, non l’ho scelto io. Gliel’ha dato uno che l’ha letto. Lo ringrazierei e lo citerei, se solo mi ricordassi il nome.
- Sai a cosa pensavo Mendoza?
Inarcando il sopracciglio senza smettere di pulire il bancone.
- Pensavo... non ho mai visto un vecchio giù in città... a parte il Capitano...
- Non ce ne sono. Hai pulito i bicchieri?
- ...
Pausa; lo straccio stride su una superficie già lucida, insistendo su aloni che giustamente chiedono di rimanere lì, dove placidamente hanno albergato per tanto tempo.
- Si, li ho puliti. Ma che vuol dire che non ci sono?
- Vuol dire che non ce li fanno stare. E li hai anche asciugati? Sai quanto detesto le macchie di calcare.
- No, ora lo faccio.
Ripone lo straccio sulla spalla a far da sostegno all'aria burbera e lavoratrice d'un barista. Si muove a passo lento, ciondolando sovrappensiero verso il lavabo.
- Che vuol dire?
- Cosa?
- Quello che hai detto.
- Quello che ho detto che?
- Riguardo i vecchi... che non ce li fanno stare.
Mendoza si irrita facilmente se lo si disturba mentre sta sistemando i suoi panini all'olio imbottiti di tonno e pomodoro. Osserva l'altro darsi da fare, chino sui boccali con il canovaccio pulito.
- C'è una legge qui - riprende a sistemare i panini - che vieta loro di girovagare per la città.
- Ah... e dove vanno a finire?
- Nei cimiteri.
- NEI CIMITERI?- Si volta di scatto facendo cadere in terra una pinta che ora è una ex-pinta e che probabilmente non sarà mai più una pinta.
- Cazzo.. scusa...
Mendoza non si scompone.
- Pulisci e stai più attento, hombre.
- Ma cazzo... uccidono i vecchi qui?
- Non dire stupidate. Certo che no.
- Ma allora che vuol dire che stanno al cimitero?
- Vuol dire che ci vivono. Questa legge risale ad una ventina di anni fa e dice che uno, quando diventa vecchio, se ne deve andare a sdraiarsi ai piedi della propria lapide, aspettando che la Vecchia Baldracca venga a prenderlo. Loro non possono fare niente altro che stare sdraiati. Qualcuno si porta dietro la televisione. I figli e i nipoti vanno li a piangerli, a trovarli, a portar loro dei fiori, o del tacchino.
- Guardami bene figliolo - disse Mendoza puntandosi l'indice agli occhi - Non c'è peggior morte per un uomo che l'essere dimenticato da vivo. Ma la gente non dimentica mai uno morto davvero, perché a farlo sarebbe peccato.
domenica 6 giugno 2010
Quelli che eravamo noi. Barcellona.
Di solito si parte dall’inizio. Ma non ci riesco, mi vien meglio partire dalla fine. E la fine, acclarata, conclamata, non è stata quando il tribolato e traballante aereo ha scagliato a terra le sue ruote una per volta. No, la fine, certificata e sottolineata del viaggio, è stata quando, messo piede a casa, ho acceso il televideo e ho letto qualcosa riguardo una legge sulla cortesia negli uffici e che si vuole la croce nel tricolore. Quella è stata la fine del viaggio. Il duro, traumatico, ritorno alla realtà e a questa terra che sovente indico con un’imprecazione. E allora viene ancora più facile bestemmiare per tornare indietro a scavicchiare qualche ricordo ancora caldo dal retrobottega. Per trovare un appiglio, un placebo che rilassi, e che bagni di nostalgia quel che è ora. Nostalgia vitrea e soporifera, spalmata lungo i vialoni di Barcellona, sul Mirò della Rambla, fra le finestre di Casa Battlò, sugli sterrati di Park Guell. Nostalgia fabbricata in bevute e risate, con gente che come me si dava il suo bel da fare per vomitarsi l’anima. Si, perché l’anima ce la siamo vomitata, o quantomeno ripulita. Una spugnata per lucidare quell’opaco dell’immobilità. Si arriva in Spagna e si sente il fremito di un punto zero, di un cambiamento, di una ragione fioca e vessata dalle circostanze, che vuole riemergere come una statua incastrata in un marmo non ancora scolpito. Questa era Barcellona per me e credo per molti di noi. In viaggio, si ha il piacere della scoperta, del ricercare ed in effetti c’è stato anche quello. Prima di essere soppiantato da un senso ancor più profondo, di quiete, posta nel centro di quell’aria gitana, di strade pervase di essenze vitali, di creatività quasi molesta all’occhio per quanto sgargiante. La quiete. La quiete di sentirsi a proprio agio, coccolato dai palazzi del Barrio Gotico e nella poca luce che ti delude le pupille, pure nella calura della mediana. E’ così che ti accorgi che sono proprio i colori ad avere sapore. Attraversandoli in estasi eterea, raggruppandoli con la mano in una manciata di sensazioni da tenersi in tasca, per almeno tutta questa vita. Dietro ad ogni goccia d’alcool c’abbiamo nascosto cose, che ci eravamo portati dietro. Bagagli senza etichetta e forse qualcuno l’abbiamo perso da quelle parti, stipato nei locali, in fondo ai bicchieri, tornando più leggeri. Abbiamo camminato e bruciato tutto, c’è stata voglia, tanta voglia. Dando un senso profondo al brusio e al tintinnare, al rumore del vetro infranto, dell’addormentarsi nel bagno, del salutare sconosciute, di parlare una lingua non nostra.
C’è Barcellona e poi il resto del mondo.
Forse per quei tre giorni, il resto del mondo, non c’è stato.
sabato 5 giugno 2010
Tetrapiloaforistica #6: Libero Arbitrio
venerdì 4 giugno 2010
La dama, il giullare e il re 3: la dama che ogni giullare vuole
ma quel che chiedi forse è un eccesso:
guêpière e belletti non posson
nascondere un grosso difetto.
Son giullare non dama cortese
e a nasconderlo non bastano sete,
invero son donna come nel seicento
le attrici di un teatro inglese.
Ci fai moschettirei, mia dama celata
a noi che ogni giorno l'abbiamo pagata.
A farsi è cosa assai complicata
e più ch'esercito faremo masnada
lo farem di notte declamando per strada
poesia e prosa in incursion letterata.
Vieni se vuoi, io ti invito,
se non ci separano infinite distanze
e declameremo nella sera invitante
tutte le rime che fin qui c'hanno unito.
Ora che ho detto ogni cosa leggera,
o faceta o facile come fendere l'aria
parlerò con parole importanti
sfoggiando per te la mia faccia più seria.
Le parole son del mio sentir frutti insinceri
e si ingegnano a nascondere il vero
io le piego e le domo come posso,
ma tu scosta se puoi il loro velo.
Siamo maschere messe in vetrina,
siam campanelli, merletti, corona,
anche adesso è evidente mia dama,
ci fingiamo poeti parlandoci in rima.
L'anima ha un peso ridotto,
a guardarla son pochi i capaci,
e a girare postandola esposta
sovente ci taccian d'esser mendaci.
Per questo io resto giullare:
per intessere arazzi di fiato
che infiltrin la mente distratta
di un pensiero che lasci basito.
Ricorda il giullare è l'uomo più attento
fa si che la burla non susciti offesa,
conosce l'anime dagli occhi che guarda
e ogni parola che dice la pesa.
Non dico più niente ora basta
che ho brama di tue nuove parole.
Trepido attendo una risposta
dalla dama ch'ogni giullare vuole.
giovedì 3 giugno 2010
Barcellona
Ero al porto, in una bella giornata di novembre, a guardare le barche passare, a godermi il sole, disturbato dai turisti, che guardano, indicano, ma non vedono mai l'anima del posto.
Ero sulla terrazza del parco, disturbato dalla folla, a respirare l'aria pulita che c'è lassù, abbracciando con lo sguardo tutta la città.
Poi ero nei vicoli, nelle strade, nella metro, nei locali, nelle discussioni, nella musica, nelle manifestazioni, nelle esibizioni degli artisti di strada, nella cordialità innata di chi mi circondava, ero nei sorrisi, infiniti, caldi, sinceri, onnipresenti.
Ero, e me ne rendo dolorosamente conto solo ora che sono di nuovo distante, tornato a casa.
lunedì 31 maggio 2010
Tetrapiloaforistica #5: aritmetica caraibica
domenica 30 maggio 2010
Post postalcolico, postprandiale ma soprattutto postumi
Il titolo ieri sera era "Rum e cola, grasse bassline e puzzo di piscio" e dissertava sui piaceri di saltellare in cinquecento su un fazzoletto di terra battuta, dell'essere sudati e fangosi, dei cani che passeggiano nei centri sociali. E del fatto che io riesca a provare sconfinato amore per tutto questo senza nemmeno una qualche giustificazione psicoattiva; escludendo ovviamente l'alcol, che però non è noto per far provare amore, al massimo sesso, e solo se lo beve lei, possibilmente in quantità esagerate.
Questo ieri, ma visto che oggi ci sentiamo stanchi, io e questo post, e la luce ci fa male agli occhi, ci guardiamo l'ombelico; benvenuti quindi in un post ombelicale (volevo scriverlo in un post, prima o poi, e ora lo riscrivo anche, O-M-B-E-L-I-C-A-L-E, tiè).
Detto questo io e il qui presente post vi salutiamo e ci andiamo a stendere un paio d'ore, lasciandovi con la piacevolissima immagine di me che mi guardo l'ombelico (e se ieri sera avete trattenuto a stento la cena, con questa scena appena dietro gli occhi sicuramente il pranzo non lo trattenete), e comunicandovi che Tetrapiloctomia alla buona sta diventando una cosa terribilmente seria, e che questo è il suo centesimo post. [Applausi]
sabato 29 maggio 2010
venerdì 28 maggio 2010
Tra Viale Zara e Marrakech
di Danilo Cipollini
“Immagina Roma come un buco di culo, con il Raccordo Anulare a fargli da cintura, e dentro sei milioni di minuscoli cazzi che si dibattono per sfondarlo.
Milano pensala come un naso imbiancato di coca che tira su rumorosamente e si gode le ultime botte, Torino come il cervello operaio e buio di quel naso, strafatto di quel che Milano tira, messo a mollo nella nebbia.
Genova e Venezia sono occhi blu mare, con le pupille ristrette, che guardano fisso verso sud, verso Firenze, cuore pigro di questa nazione.
Napoli è un pene, mollemente adagiato su un fianco, senza spunti di vitalità, senza alcuna eiaculazione - tolte quelle che offre il Vesuvio.
Da lì in giù, il resto dell’Italia sono solo gambe. Gambe da donna, gambe da puttana, bellissime da guardare ma sostanzialmente inutili. Un corpo vive bene anche senza gambe. Lo sanno tutti.”
Diego rilegge quello che ha scritto. Non è male, è un buon inizio.
Pure i ragazzi della sezione lo chiamano “lo scrittore”, perché lui è quello che scrive sempre gli articoli che mandano al giornale.
Giornale… Giornaletto, ecco. “Voce Padana”. Un paio di centinaia di copie.
Però s’è fatto un po’ di nome, articolo dopo articolo.
Cristo quant’è tardi. Le nove. Qua in Padania, alle 9 si è già mangiato da oltre due ore.
Meno male che a casa sua si mangia tardi, di solito.
Diego si alza e raccoglie i fogli. Li infila nello zaino e spegne tutte le luci.
Due mandate di chiave e via, fuori, in strada.
Diego esce dalla sezione della lega nord di Biassono.
Il motorino fila veloce per le strade. Fende piazza Italia già deserta, tutta la brava gente lombarda al momento è in casa davanti alla tv. Gente onesta, gente generosa, che lavora duro.
Gente orgogliosa.
E che rende Diego orgoglioso di farne parte.
Diego ferma il motorino dietro un angolo tranquillo. Si tiene il casco in testa. Dallo zaino sfila una bomboletta spray. Verde, verde Padania. Inizia a camminare, senza fretta. Fa una cinquantina di metri. Riconosce un muro giallino e si ferma. E’ casa del suo amico Giuseppe,.
Peppe.
Peppe è nato a Catania. E’ un terrone. E’ venuto a nord coi genitori quando era piccolo, alle elementari stava in classe con Diego. Poi, si son persi di vita. Ha appena rilevato un bar, il bar che era di un onesto Padano… non va bene. Non va per niente bene. Quindi quelli della sezione di Diego hanno deciso di dargli un segnale. Per fargli capire che proprio non ci siamo.
E lo deve fare Diego.
Quasi gli dispiace. Lo conosce, da ragazzini stavano al banco insieme. Ma lo dice anche Umberto, il Senatùr “Chi vuole sposare la Lega poi deve seguire gli ordini”.
La mano guida il getto di spray sul muro. Poche parole costellate di un ottimo dialetto lombardo. Un invito esplicito a ripercorrere indietro la strada che lo riporta in Sicilia.
Diego corre.
Torna indietro al motorino, salta in sella, schizza via.
Il cuore pompa.
Diego accelera.
Diego.
Ogni volta che arriva davanti casa sente una fitta allo stomaco.
E’ sempre così. E’ sempre peggio.
Pensa ai suoi 19 anni, ai progetti che lo portano lontano da casa. Quanto ci vorrà ancora? Un anno? Due? Non importa. “Tegn dur, mai molàr”. Così si dice, da queste parti. Tieni duro, mai mollare.
E se lo ripete, mentre sale le scale.
Tieni duro, mai mollare.
Mentre cerca le chiavi
Tieni duro, mai mollare.
Mentre apre la porta.
Tieni duro, ma... ma…mma. Mamma.
“Ciao, mamma”.
La signora corpulenta si alza dal divano con agilità insospettabile e spegne la tv.
“UEEEE!! DIEGHI’!! Sì tturnate?? Bello a mammà! E come è andata, eh? Dillo, dillo a mammà! Tutto bbuono?”.
Diego Armando Esposito sospira.
La sua famiglia proprio non la regge più.
“Si mammà, andò tutt’bbuono”.
“Mi fa piacere assai. Vieni in cucina, che mammà ti ha fatto la frittata di pasta …”.
E Diego si consola un po’ pensando che almeno, la frittata di pasta alla polenta gli rompe il culo.
giovedì 27 maggio 2010
Quel che deve restarti, poi (Hole iz that j’adore)
So che ora, t’ho lasciato un vuoto dentro e so come ci si sente. Ma se i discorsi non sono rimasti, quel che ancora c’è, è che deve farti ricordare di me, è quella tua camminata strana, testimonianza d’una circonferenza brasiliana. Soltanto una cosa, non ti resterà di sicuro.
Sono i cinquanta euri sul comodino.
Un bacio sulla cappella,
Fernandinho do Brasil
Quel che resta poi
Quello che resta poi sono candele consumate, un letto sfatto, lenzuola da lavare per togliere via le macchie del tuo piacere; e finestre da aprire, per togliere l'odore di sudore e sesso che si attacca alle pareti.
E poi, una scatola vuota, piena delle acrobazie lessicali che solo i produttori di profilattici sanno fare, e le confezioni quadrate strappate, a ricordare la natura usa e getta della serata; e i segni sulla schiena, i muscoli stanchi e la forma netta delle tue mani sul muro appena dipinto, V-A-F-F-A-N-C-U-L-O!
Non è rimasta la cena, mangiata distrattamente, digerita e poi consumata seguendo il ritmo più semplice, antico e animale che ci portiamo dentro: una teoria di singoli colpi protratti all'infinito, fino allo sfinimento.
Non sono rimasti i discorsi e le parole di carta, dette senza nessuna ragione se non quella di farti dare un tono, per fingere la mia necessità di corteggiarti e sedurti, per nascondere che tu, qui, sei venuta solo per avere un uomo fra le gambe.
Quello che resta poi, quando il sole viene a cancellare tutte le illusioni e le menzogne, è la tua paura, e il bisogno di un letto per sentirti ancora giovane e attraente, e la mia solitudine, che con le palle vuote e gli ormoni sfiancati, è libera di urlarmi in faccia tutta la sua terrificante esistenza.
lunedì 24 maggio 2010
La dama, il giullare e il re 2: A ogni dama il giullare che vuole
che far ciò che faccio io devo,
il mio compito è causare il sorriso,
ma non sempre nel farlo io rido.
Ogni dama ha il giullare che vuole,
che legga sonetti o che faccia capriole,
ma non sempre riesce a vedere,
che c'è un uomo dietro ogni giullare.
Tu lo conosci che è sempre ridente,
da quando ti svegli a che il sonno ti coglie,
ma non conosci il giullare davvero
quando è chiuso nelle sue stanze,
quando la notte la corte è silente,
e toglie colori sgargianti e campane,
tu non sai quanto è uomo la sotto
lo strato di trucco dal doppio colore.
Il giullare ti giuro non piange davvero,
ma sul suo volto non trovi sorriso,
anche lui ha il limite di tutti i pagliacci,
lui non può rallegrarsi da solo.
Dolce dama che nega il suo nome,
e il cui volto invero non scorgo,
ti sfida l'uomo che è dietro il giullare,
a fargli fiorire un sorriso sul volto.
Requiem
Uno scrittore muore, e centomila giorni di festa.
Uno scrittore muore, senza esser tale.
Centomila giorni di festa.
Grida che s’è spento, un calvario lo appaga. E quel che è incontrovertibile, inappagato rimane. Che oggi si spengano la fiamma ed i falò. Niente sere ad augurargli un augurio che sia. Oggi si spense, reciteranno il requiem. Oggi morto s’è fatto, uno scrittore che è morto di fatto. Non è un colpo al cuore?
No, non lo è.
Oggi si spegne il solco e affanculo il resto.
Niente altro da dire, sulle bocche di tutte, messe e preghiere. Mea culpa, mea culpa.
Messe e sorrisi.
Cento mila giorni di festa.
Oggi si spegne un uomo che muore, che vizio, per caso, lo voleva chiamare scrittore.
Sua colpa. E poi messe e lamenti. Oggi si affaccia al mondo un uomo che muore scrittore.
Cento mila giorni di festa.
Addio, signori e signore.
venerdì 14 maggio 2010
La dama, il giullare e il re
"Eccomi, mio re" disse in un tintinnar di campanelli il giullare sapiente.
"C'è una dama alla mia corte, giullare, nei cui occhi non scorgo la gioia. Va giullare, riporta la gioia in quegli occhi, che alla mia corte non voglio tristezza".
"Mio sire, conosco la dama di cui state parlando. Ella è affetta da un male che non posso curare con una battuta ed un tintinnar di campanelle. Solo il tempo, e la sua volontà, hanno questo potere." Rispose mesto il giullare.
"Ma andrò, e farò ciò che è in mio potere.
La ubriacherò con risa, con vino e con ballo,
le insegnerò la quadriglia del matto,
che di quattro battiti non suona che il terzo,
le farò un dono che duri una sera,
il privilegio di una testa leggera,
riscoprendo il gusto di ballare da sola.
Questo io posso mio re,
non mi è dato curare quel male,
solo, per una sera, lenirne il dolore."
"Va giullare, fa quel che puoi, tutte le volte che devi. Tutto quello che voglio è scorgere ancora gioia in quello sguardo."
E il giullare andò, con una capriola ed un balzo, con risa ed un accenno di passi della quadriglia del matto.
"È pazzo" pensò il re leggero "ma nella follia lui ha la cura per tutto."
"Mio re" pensò mesto il giullare sapiente "avrai quel che chiedi, ma pagandone il prezzo più alto.
Della dama che ami avrò cura,
che sia per una sera o più d'una,
caparbio carpirò la sua fiducia,
per farla sentire leggera e sicura.
Poi soffierò fra le sue ceneri spente,
alla ricerca di braci nascoste,
invisibili a tutta la gente comune,
ma lampanti per gli occhi di un folle.
Soffierò ancora per portarle alla luce,
per farle ardere di fiamma vivace,
fatta di gioia e di vita vorace,
che negli occhi, mio sire, riluce.
E lei ballerà la quadriglia del matto,
scoprirà che si balla anche senza compagno,
scoprirà che si vive ad un livello più alto,
e di te, mio re, non cercherà più lo sguardo."
giovedì 6 maggio 2010
Idrogrammatologia 7: Anche le società più civili hanno qualche difetto
Sto pensando ad una società in cui la libertà di culto è assoluta, in cui gli edifici di culto delle varie religioni e divinità sorgono gli uni accanto agli altri, in cui nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione l'altrui credo.
Sto pensando ad una società cosmopolita, in cui la diversità è ricchezza, in cui le varie culture si confrontano e si integrano per dar vita ad un qualcosa di nuovo ed in continua evoluzione.
Sogno una società in cui è scontato prendersi cura dei propri dipendenti, una società in cui ogni singola persona è un investimento da portare avanti e curare, dove, di fronte alla proposta di un lavoro a tempo determinato, sarebbe il capo stesso a riderti in faccia.
Certo, i romani davano i cristiani in pasto alle belve affamate; ma di fronte all'alto grado di civiltà raggiunto questa piccola barbarie impallidisce, e stiamo comunque parlando di quasi due millenni fa.
E poi in fondo è vero che i leoni li affamavano, ma di fame non ne è mai morto nessuno!
martedì 4 maggio 2010
Coma da suggerimento: Ho visto Stella cadere
Enjoy.
Ho visto Stella cadere.
di Danilo Cipollini
Se ci fosse un interruttore che ti spegne, giuro, lo userei.
Bastasse premere un bottone per dimenticare e ricominciare da capo, non ci penserei un secondo.
Non c'è metodo per sollevare ciò che muore, è vero, ma ho scoperto che anche uccidere ciò che ancora vive è tutto fuorché facile.
Vallo a spiegare a un cacciatore. Vallo a spiegare a un macellaio, o a un assassino.
Ma soprattutto, vallo a spiegare alle vittime.
Mentre tutto questo mi viene addosso, nonostante tutto questo che mi corre addosso, tu mi chiedi di aspettare.
Sono seduto a Corso Buenos Aires, nella tua Milano, davanti a me passa una modella che fuma elegantemente una sigaretta e, svogliata, occhieggia le vetrine.
Andrea G. Pinketts, nei suoi libri, ne ha descritte tante delle modelle di Corso Buenos Aires, ma tutte mute. Tutte oggetti, Veneri di nicotina e fard, abili per lo più al piacere dell'uomo o da tenere buone per l'alcolismo.
Io oggi vorrei dar loro la possibilità d'un riscatto, farle finalmente parlare, Cristo, che qualcosa avranno pure da dire.
Così prendo Ingrid (questo è il nome che le ho dato) e di lei, più che il culo nudo, immaginerò la mente.
Torniamo allora dalla nostra Ingrid, che cammina elegante ma non troppo, sui tacchi aguzzi come pugnali, le gambe lunghe dalla pelle chiara che filano, strette, sul marciapiede coperto di mozziconi, il vestito nero che svolazza poco intorno alle ginocchia nude.
Un tacco si impunta e l'andatura quasi elegante si scompagina un secondo, Ingrid piega sulla destra, sembra quasi che cada, magnifica quercia tradita da un minuscolo taglialegna, ma si riprende, tiene duro spingendo sui lombi allenati e nello spazio di due metri riprende postura e eleganza.
Unico segno tangibile della quasi-caduta, fra le sue dita è scomparsa la sigaretta, che ora rotola sul selciato lasciandosi dietro piccole colonne di fumo. Sibila “Merda”, con un forte accento del nord Europa (Norvegia, Danimarca forse, ma più probabilmente Svezia), riavvia con la mano il fatale caschetto di capelli rossi e fulmina in basso con lo sguardo la traditrice di carta e tabacco che lentamente muore a terra, nell'indifferenza generale.
Lentamente muore anche Ingrid, muore dentro da un mese, da quando Stella non c’è più.
Stella che le illuminava il cuore, Stella modella, anche lei, che vive a Roma in una casa dalla quale, certi giorni, si sente l’odore del mare. Stella sorella, stesse esperienze, stessa sorte, stessi timori, stessi incubi di plastica. Stella gemella, quasi, per quanto forte, e bello, era il loro amore. Stella che era così diversa da lei, così razionale, così calcolata, Stella che amava in piccole cose e rifiutava i gesti teatrali. Stella che un giorno ha detto “Qui non c’è più nulla che possa darti. Vorrei che non ci vedessimo più.” ed è partita, sparita, Stella che è caduta, confus, dice, e dice che ora no, ora si deve ricostruire, ora non si può più.
Ingrid alza gli occhi e mi guarda. Non guarda verso me, guarda Me. Non servono parole perchè viviamo nello stesso dolore, un mondo a parte in cui tutti gli altri ci sono ma sono ovattati, lontani. Si avvicina con lo sguardo più vero che mi riesce di immaginarle in faccia e accendendo un’altra sigaretta mi dice solo “ Ho visto Stella cadere”. Poi si siede accanto a me sulla panchina di legno e per un po’ stiamo zitti. Sigaretta lei, sigaro Toscano io. Zitti, che a parlare ci pensa già Milano. Passano un paio di minuti quando si volta e mi fa “Piacere, Ingrid”. Non le regalo il mio nome ma tiro un’altra boccata e le chiedo “Ha fatto male?”, come se non conoscessi già la risposta.
“Lo sai che fa male”.
“Già, ne ho una vaga idea”. Sorrido.
“Io ho idea che tu sei qui per lei”, mi fa.
“No..cioè si... cioè Ingrid non lo so, davvero. E’..assurdo, è incredibile come la confusione di un altra persona... poi può diventare la tua.”.
Segue silenzio imbarazzato e amaro che ci lascia il tempo per fumare il fumabile.
Quando la punta del Toscano è così corta che il calore mi brucia le labbra a ogni tiro, lo butto.
Devo essere proprio conciato male se una bella donna in crisi per amore mi abborda in cerca di conforto e non per un amplesso che le riabiliti un paio d’ore.
E all’unisono, all’improvviso, gli occhi fissi sull’asfalto, diciamo “Se ci fosse un interruttore...”. E ci fermiamo, sorridendo per quel pensiero diviso a metà, le faccio segno di continuare lei, anche se questa frase la conosco già. Spegne lentamente il sorriso e dopo un istante “Se ci fosse un interruttore”, ripete, “per spegnere i pensieri, lo avrei premuto un mese fa.”.
Stràli di fritto vengono scoccati dal Mc Donald’s qui davanti, ora che il sigaro non mi protegge più con la sua cortina densa di fumo arrivano tutti a segno.
Ingrid mi chiede l’età e quando gliela dico scuote la testa e non ci crede. Mi sfida alla prova e le passo la carta d’identità per difendere quel che ho detto, manco fosse un carabiniere. E in effetti è furba, troppo furba per essere un carabiniere, perchè con questa mossa ha scoperto non solo l’età ma anche il mio nome.
“Sembri più grande, Danilo... Sei invecchiato in fretta”. Colpa della boxe e di una donna, dico io.
“Ognuno ha la sua Stella da guardare cadere”, rincaro la dose.
Stringe i pugni e si alza di scatto, fa per andarsene, si volta dopo un paio dei suoi lunghi passi eleganti e mi dice “L’assurdo è che dopo averla vista cadere, l’unico desiderio che riusciamo a esprimere è che torni presto al proprio posto”.
Poi si volta e se ne va, lasciando scivolare dalla borsa quello che sembra un biglietto da visita, guardandolo mentre plana quel tanto che basta a farmi capire che è un caso.
Si allontana a passi veloci. Splendida.
Guardo il biglietto dalla panchina e non lo raccolgo. Vado via, accendendo un altro Toscano.
Dopo aver visto cadere una Stella, chi guarderebbe cadere un biglietto?
lunedì 3 maggio 2010
Scleropatomittenza 8: come stai?
Undici del mattino, sveglio da due ore dopo quattro di sonno agitato.
Spengo la quinta sigaretta, chiudo la terza telefonata di lavoro, ed è un'ora e mezza che soffoco inscatolato nel traffico.
Cinque tre, e chi vuole intendere intenda, per me ormai è un mantra.
Nelle gambe ho quaranta chilometri e due notti a ballare, sulla pelle le ustioni del sole e il gelo dell'acqua di mare i primi di maggio sotto un cielo color piombo, nello stomaco un fine settimana senza smettere di bere, nemmeno per sbaglio; dentro ho dei pezzi che non ne vogliono sapere di tornare insieme, e intanto qualcuno urla e scalcia e non ne vuole sapere di smettere di far danni.
Lunedì mattina rabbioso e compresso, alla ricerca di un week-end come valvola di sfogo; capiscilo da solo che oggi è inopportuno, volendo anche pericoloso, chiedermi "Come stai?".
venerdì 30 aprile 2010
Il mio motore fa le bizze
Ci sono momenti in cui va da dio, e io posso sfrecciare libero, senza pensieri e senza destinazione (perchè è questo il bello di correre spinti da certi motori, che non hai bisogno di una direzione o di un obbiettivo, vai talmente forte che alla fine incroci di tutto, e a girare a vuoto per un milione di chilometri o due non si perde poi tutto questo tempo).
Poi d'improvviso strappa, accelera, inchioda, fa il cazzo che gli pare e io sbando; per fortuna che c'è sempre qualche bel muro pronto a fermarmi. Così posso ripartire, ossa rotte e naso sanguinante.
A volte poi inverte la marcia, e mi fa tornare indietro, a rivedere posti già visti, ma solo di quelli dove non mi sono trovato bene; ringrazio i pali che intervengono a fermare questo mio retrocedere, anche se in maniera un poco brusca, anche se non sempre sono piantati in terra come si deve, ma se ne stanno li, semplicemente lasciati in mezzo. Ma li ringrazio uguale, che mi danno la possibilità di riprendere la strada nella direzione giusta, anche se la percorro dolorante.
Mi tocca pure spingere, ogni tanto, che il mio motore non sempre ha voglia di andare, e allora mi tocca prendere il motore fra le braccia e camminare lentamente, ogni passo più pesante di quello precendente, fino a che il mio motore non decide che si può riandare.
A volermi rendere la vita più semplice mi basterebbe abbandonare questo motore sul lato della strada, e continuare a piedi, che in fondo a piedi ci sono sempre andato; sarebbe meno doloroso, e avrei pure la possibilità di guardarmi un poco intorno, per vedere, magari, di trovarne un'altro meno bizzoso, di motore.
Ma alla fine questo motore mi fa muovere più veloce dell'andare a piedi quel tanto che basta per farmi sopportare le ossa rotte e la faccia sgrugnata, e poi, quando non ce la faccio più, quando veramente lo abbandono e inizio a camminare da solo, il mio motore mi raggiunge, mi prende per mano, mi dice <
La Padronanza (dei miei Enzimi)
Perchè si bacia sempre, sempre, la mano che ruppe il tuo naso.
Signori e signori,
vi offro...
La Padronanza (dei miei Enzimi).
Gli Uomini sono cuori che sparano arterie.
Gli Uomini sono cuori e quello è il loro posto nel mondo.
Gli Uomini sono cuori, e questa è una condanna.
Condanna, dico, perché un cuore non può scegliere di fermarsi.
Un occhio … può chiudersi, e riaprirsi quando si sarà riposato un po’.
Una mano può smettere di accarezzare un bel paio di gambe, e riprendere dopo un po’. O spostarsi, piano piano, a sfiorare altre fortune.
Persino i polmoni possono, per qualche tempo, contrarsi e smettere di buttare dentro aria.
Un cuore no.
Un cuore tira dritto sulla sua strada e sia quel che sia, non può smettere di battere e così come lui gli Uomini non possono smettere di muoversi (noi compiamo in media 1328 movimenti, ogni notte, anche durante il sonno), un Uomo anche se non vuole non trova mai vero riposo, e continuerà a bere mangiare fumare parlare sorridere scommettere credere fare l’amore. Pensare. Un Uomo penserà e i suoi pensieri saranno come sangue che affiderà alle Parole, che dell’Uomo sono arterie, vene, perché racchiudano in se quel pensiero e lo trasportino lontano.
Un Uomo è un cuore e questa è una maledizione che rende più lieve osservando l’incanto del meccanismo intorno a se. Attribuisce a ognuna delle persone che gli ruotano attorno un ruolo, la sua molecola, la sua funzione, e resta a guardarli mentre si incastrano a meraviglia permettendo a quel grande corpo umano che è la Sua realtà – una realtà personalissima di cui è il cuore, il motore, lui e lui solo – di funzionare a pieno regime.
I miei anticorpi, puoi chiamarli Mamma e Papà.
Ho una nonna che è la mia milza.
Un fratello che è polmoni.
Fegato, piastrine e ormoni sono delegati agli amici.
Il cervello l’ho affidato ai miei libri e a qualche canzone.
Gli enzimi sei tu.
E io sballo per gli enzimi.
Gli enzimi non se li caga mai nessuno. Quando pensiamo a noi stessi, al nostro corpo, a come funziona … Pensiamo al cuore. Alla lingua. Al fegato, al sesso, al sangue. E trascuriamo sempre gli enzimi.
Dì, ma lo sai a che serve un enzima?
Un enzima è un acceleratore.
Prende i processi che avvengono all’interno del nostro corpo, le centinaia di migliaia di reazioni al secondo che ci permettono di vivere, e li rende più veloci. Milioni di volte più veloci.
Immagina: la Pizza. Quando impasti la pizza, poi devi lasciarla a riposo, a lievitare. Ecco … è un enzima a fare questo. E quel miracolo che si compie in un paio d’ore, senza l’enzima richiederebbe mesi.
Moltiplica lo stesso miracolo per centomila e sbattilo dentro al tuo corpo. E’ quel che sta avvenendo proprio ora.
C’è da restare senza fiato, non è così? E non è finita, reggiti forte che adesso arriva il bello.
La cosa migliore è che, nel fare questo, l’enzima NON SI CONSUMA.
La capisci la grandezza? Non c’è sacrificio, non c’è perdita d’identità, l’enzima resta quello che è. Si lega alle sostanze per il tempo che serve, la fa reagire, la trasforma, e poi si stacca. E torno indipendente. Autonomo. Sicuro di se.
E’ così che sei il mio enzima. Quando mi lego a te, quando sto con te, tutto il mondo si velocizza. Le persone, le parole, i miei pensieri, tutto ruota intorno a me, fuori controllo, in un caos apparente che mi gonfia, mi fa reagire, e Dio solo sa quanto mi rende vivo.
Poi ti stacchi, torni tu, e tutto riprende com’è. Mi lascia il tempo di riprendermi, di pensarci su, mi lascia respirare prima che torni di nuovo tu a velocizzarmi l’anima.
Sei tu che tieni, fra le mani, la padronanza dei miei Enzimi.
Io non lo so com’è, l’Amore. Non lo so come non lo sa nessun uomo, perché a noi non è data la possibilità di conoscerlo. Possiamo solo studiarne una nostra versione, adattarlo a noi, ed essere poi condannati a cercarlo per il resto della nostra vita.
Possiamo inventare una cosa e chiamarla Amore, e provare a viverla cercando in lei di essere felici. Che poi, in fondo, è quel che cerchiamo tutti, non si fa altro nella vita se non provare a essere felici, con ogni mezzo possibile.
E ci ho provato, tante volte, ed ho trovato tante cose diverse, e tutte le ho chiamate Amore, e tutte o quasi poi sono finite perché vivendole, sperimentandole, lasciando che mi emozionassero, si consumavano.
E forse è questa la tua grandezza. Il tuo non consumarti, il tuo restare tu, mi fa sperare che stavolta possa essere diverso. Mi fa pensare che lo sbaglio sia stato cercare l’Amore nel cuore, e quindi dentro di me, e non averlo cercato negli Enzimi.
E’ negli Enzimi che lo trovo oggi e io ti prego … continua a rendermi la vita una corsa. Te ne prego.
Fumo piano mentre mi scorri nelle vene.
lunedì 26 aprile 2010
Tetrapiloaforistica #3: rivelazioni sull'amore e il suo contrario.
lunedì 12 aprile 2010
Tetrapilocronaca #3: Quando puoi, grida Barabba
Chissà se Cristo, avrebbe voluto essere ospite di Vespa. Me lo chiedo, con non troppa euforia. In effetti, pare di vederlo, Cristo, quando in pompa magna il presentatore dedica una puntata all’ostensione della Sindone. Pare proprio Gesù, quello impresso sul telo e poco importa se viene ridicolizzato l’esame al carbonio 14, che ricordiamo, data il reperto attorno al 1300 d.C.. Come commentato dagli ospiti in studio, pare davvero improbabile che qualcuno abbia ucciso un essere umano in quei secoli dove il rispetto per la vita era nelle coscienze di tutti, solo per poter donare al mondo una falsa reliquia. Improbabile, ma che dico improbabile, impossibile. Vespa ne pare convinto e di certo, non sarò qui a contraddirlo, data la sua imparzialità e la sua analisi irreprensibile dei fatti; non possiamo che essere coinvolti. E quindi anche Cristo è in tv. In seconda serata. E di sicuro, non si sentirà solo, perché, oggi, il martirio è di moda, ci passano in tanti. Prendiamo una trasmissione di punta Rai, mettiamo che questa sia un reality, facciamo conto che questo reality si chiami L’Isola Dei Famosi e sia condotto dalla donna immagine di Rai Due e che questa, con un’intuizione proiettata agli ascolti, peschi una figura per questo programma quantomeno controversa, che risponde al nome di Aldo Busi, di professione scrittore, presentato come l’uomo pronto a portare la cultura in tv. Ecco, con tutti questi elementi al loro posto, gettiamo le fondamenta per una via crucis in piena regola. Già perché poi, potrebbe esistere ed in effetti esiste, una trasmissione radiofonica romana, Te La Do Io Tokio, in onda su Centro Suono Sport. Questa trasmissione, ideata e gestita da Mario Corsi, è uno dei programmi più conosciuti e seguiti nella Capitale e nasce principalmente come spazio dedicato al calcio e tale rimarrebbe, se non fosse che il conduttore, conosciuto ai più, semplicemente come “Marione”, è da molto tempo in prima linea quando si tratta di portare alla luce temi sociali scottanti e soprattutto dimenticati, spesso e volentieri, dalle trasmissioni che invece sono preposte a tale fine. Controinformazione, mi viene da dire in maniera forse impropria. Ecco dunque che già da qualche anno, grazie anche alla determinazione di Giuseppe Lomonaco, nel ruolo di cronista d’assalto, Te La Do Io Tokio si occupa fra le altre cose, degli spinosi eventi legati ai casi di pedofilia in Italia, seguendo l’equilibrata filosofia del “contro nessuno, a favore dei bambini”. E vista la forza e la costanza messa in queste inchieste, risulta quasi ovvio che proprio da qui venga riportato alla mente un intervento proprio di Busi risalente al 1996, in quel del Maurizio Costanzo Show, che potete vedere qui (se nel mentre non sparisce il video da Youtube, come è già successo). Sebbene poi in seguito Busi prenderà in qualche modo le distanze da quelle dichiarazioni definendole provocazioni (è bello poter dire “era una provocazione” e non doversi mai scusare, invero), in breve molti chiedono l’allontanamento dello scrittore dalla televisione di stato. Il vaso di Pandora è aperto. Nel mentre, nel reality, il signor Busi ravviva lo spettacolo, puntando l’indice contro l’altrui intelletto, in liti e bisticci, e auto proclamandosi profeta di sapere e buon senso. Fino a quando, ritiene giusto sia il caso di tornarsene in Italia, probabilmente convinto che avrebbe continuato poi dagli studi televisivi la propria avventura. Quindi dichiara di ritirarsi dal gioco, viene prima pregato di restare, poi battibecca con gli ospiti in studio ed infine con la Ventura, sciorinando nel frattempo, come fossero aculei d’un istrice messo all’angolo, nozioni storiche di dubbia utilità all’economia del discorso. Tutto questo lo potete vedere qui. Chi applaude, chi fischia, fatto sta, che nei giorni successivi, la Rai comunica che Busi non apparirà nelle seguenti trasmissioni, giacché reo di dichiarazioni anticlericali. Scusa più o meno plausibile da parte dei dirigenti, fatto sta che la patata bollente è messa da parte. Dalle parti del Vaticano, nel frattempo, hanno ben da fare con un’altra bomba, riguardante sempre la pedofilia. Storie brutte, di preti e bambini, di verità forse coperte, forse no, che secondo alcuni quotidiani esteri, potrebbero colpire di riflesso l’attuale Papa. Chissà cosa direbbe Ratzinger intervistato da Costanzo, mi viene da pensare. Comunque, la Ventura non ci sta, poco gli importa delle dichiarazioni del 1996, rivuole Busi a rimpolpare gli ascolti, vuole “garantire la libertà di parola a tutti”. Ecco quindi che lo scrittore diventa martire prossimo alla santità nell’iconografia televisiva. Ma recitando il rosario con il telecomando, mi viene d pensare che in croce non si deve star poi scomodi e da un intellettuale, passo ad un altro, dai modi radical chic altrettanto accentuati, che si cimenta in discussioni calcistiche, ovvero Mughini. Quest’ultimo recita il vangelo del Moggi, venuto al calcio per portare pace ed amore. Lui si poeta incompreso a cavallo fra il vecchio ed il nuovo millennio. Per chi non ricorda, Luciano Moggi, altri non era che il DG della Juventus. La Juventus è la squadra che più di tutte fu implicata in Calciopoli. Per Calciopoli, si intende un intrallazzo di ampie dimensioni fra squadre di calcio, dirigenti, calciatori, arbitri e chi più ne ha più ne metta, atto ad alterare i risultati sportivi delle partite di calcio del campionato italiano. Il calcio è il fiore all’occhiello dell’Italia, colpito sovente da scandali (o forse, più semplicemente, il fiore all’occhiello degli scandali che colpiscono l’Italia). E quindi, troviamo l’apostolo Mughini, su Rete Quattro, che inneggia alla poesia di Moggi, capace di prendere Cannavaro dando in cambio Carini, e distruggendo la prosaica interpretazione della (volgarissima, per l’amor di Dio) giustizia sportiva, nonché di quella ordinaria. E anche qui, poco importa se fra le mille e una sconcezze, quello scambio di giocatori è avvenuto quantomeno sotto una luce sinistra (andate a leggere le intercettazioni e vedete quando Moggi chiede a Cannavaro di “fare casino”, non aggiungo altro). Quando puoi, grida Barabba. E quindi torniamo al principio, dove non basta il vero, per essere più veri delle parole dette in televisione. Io attendo le intercettazioni al carbonio 14, perché sono stra-convinto, che se Gesù non fosse morto di freddo, sarebbe sicuramente andato da Vespa.
domenica 11 aprile 2010
Diecimila
Sono sulle mura di un castello diroccato, in cima ad una rupe, a guardare la mia decimillesima alba.
Probabilmente sono bagnato fradicio, quasi sicuramente sto tremando di freddo, che sulle mura di questo castello diroccato il vento non da mai tregua, e ti fa entrare il gelo nelle ossa.
Non so con chi sono, se sono solo o intorno molta più gente di quella che vorrei, so che sono ubriaco, che sto sacrificando vino e un'altro pezzo del mio fegato alle semidivinità pagane che abitano i boschi che ho intorno.
Non so se sto ridendo o piangendo, o tutte e due le cose insieme, ma poco importa, che ho imparato a piangere di gioia e a ridere di dolore.
Tutto ciò che importa è che sono nel posto più importante della mia vita, quello a cui lego tutti i ricordi che vale la pena ricordare, a testimoniare che, nonostante le premesse e il percorso, io sono vivo, e sono qui a veder morire un'altra notte e a veder nascere un altro giorno.
E sto pensando che mi piacerebbe avere un cucciolo da portare qui, fra diecimila giorni, per mostrargli un'alba che mozza il fiato, e raccontargli questo giorno. E poi tornare qui, dopo diecimila giorni ancora, e dare le spalle al sole che sorge, a guardare una notte che giunge alla fine.
sabato 10 aprile 2010
Dentro L'area
Per tutte le volte che tiri indietro la gamba. E quello che ti manca di sapere, è come sarebbe andata. Ti guardi dietro ed uccidi la giornata, che il sonno che viene, passerà, il sonno che passa, verrà. C’era ancora il capitano. Ancora c’era. Ed io, avevo un mese e mezzo di vita. C’ero pure io, anche se me ne sarei accorto solo dopo.
Loro ridevano. Noi piangevamo. Ed altri ridevano perché noi piangevamo. Giusto, giustissimo. Perché fossimo stati noi a ridere, loro avrebbero pianto. Quindi giusto. Estremamente giusto.
Ma l’importante, in tutto questo, è il ruolo. Il ruolo che ha avuto uno. L’uno, che da solo ispira. Apre, inventa, realizza. Che poi, stringendo, è quello che la gamba l’ha tirata indietro.
Sapete, io, non vengo mai impressionato dalla forza, dalla quantità, dalla prorompenza. Non amo i super alcolici, non leggo Nietzche, non mangio salato.
Perché puoi fare tutto e farlo bene, magistralmente. Ma deve essere il tuo tocco a stupirmi. La tua eleganza. E cazzo se lui l’aveva.
Tre passi e pugno al cielo.
Senza ostentazioni.
Puro filo di seta, teso a dividere il bello, dall’inimmaginabile.
E così, io, gli ho rubato il numero, il 5. E badate bene, non un cinque scritto con le lettere. Un numero 5. Matematico, risoluto, primo, inarrivabile. E che indosso io, ora, con orgoglio.
E dove insegnava lui, c’era geometria nell’area, calcolata e non calcolabile. Non gli serviva essere re, o principe. Solo consigliere, al servizio del Barone. Ma venne il momento d’essere incoronati e lui, non ne volle sapere. Rimase in disparte. Forse, perché l’alloro, gli calzava stretto. Forse per paura. Non lo sapremo e non importa.
Gli altri risero, noi piangemmo.
Io quel numero, lo indosso con orgoglio. Significa tanto per me. E’ ricorrente per me. Non sapremo mai come è che sarebbe andata. Non possiamo immaginarlo davvero. Lui, s’è tirato indietro, una volta per sempre. E questo mi dice tutto della mia vita. Della vostra vita. E’ in una frazione di secondo, che scegliete. Scegliete la direzione ed il passo, il tocco è solo una conseguenza. E io scelgo, sempre, di esserci, sul dischetto. Non tirerò indietro la gamba, che è una cosa che ho visto - e già fatto - troppe volte. In una frazione di secondo, sceglierò il mio passo. Senza rimpianti, senza compromessi. In una frazione di secondo, sceglierò il mio passo. Perché, per il resto della mia vita, il Divino, quel rigore lo calcia sempre.