venerdì 22 gennaio 2010
Uno zoppo non deve ballare
Che sia chiaro, so esattamente quello che provi. Riesco a vederla, la musica che inizia a scorrerti sulla pelle, a dettare un nuovo ritmo al tuo cuore.
Conosco la passione che ti spinge, lontano da ogni logica, cosciente ma disinteressato alle conseguenze, a muoverti sulla pista, cercando di seguire il tempo, usando un corpo che non senti nemmeno tuo. È la musica che ti fa ballare, è la musica che rende la tua anima libera, leggera; modifica la realtà che ti circonda, e tu, tu vedi le pareti, le persone, le luci distorte dal suono, e tutto è perfetto e tu balli... o almeno, ci provi.
Muovi un passo, ne muovi un'altro, ti senti sicuro, ancora un passo, poi cerchi di fare ciò che non puoi e , inevitabilmente, cadi.
E io sono li, come sempre, ti tendo la mano, ti aiuto a rialzarti,ti odio e muoio, come sempre, guardando il dolore nei tuoi occhi.
E non sono gli insulti o le risate di scherno a farti male, che degli altri, a te, non è mai fregato niente. No, il tuo è il dolore di chi non può, di chi non potrà mai abbandonarsi alle passioni che lo consumano.
Ti porto lontano dal caos della pista, in un angolo distante dagli occhi degli altri, e per un poco balliamo piano, aggrappati insieme, in silenzio, e tu puoi abbandonarti ad un'illusione di normalità, mentre io abbandono le mie speranze di tranquillità.
E vorrei ripetertelo ancora, anche se già lo so, anche se già lo sai; te lo ripeterei con un sussurro, che urlato non ti potrebbe fare più male. Te lo ripeterei con la cattiveria che serve a farti capire, che la vita, lo sai, insegna solo attraverso il dolore.
Uno zoppo non deve ballare.
Me ne sto zitto. Affrontarlo ancora questo discorso, affrontarlo ora, non avrebbe senso.
Ti stringo più forte, come sempre, e ancora una volta ti tengo in piedi e ti lascio ballare.
Questa notte, queste luci, queste note ti appartengono. E quindi consumale, finchè non verrà l'alba a sbiadire tutte le illusioni.
lunedì 11 gennaio 2010
Pilocatabasi 1: Pensavo fosse amore, invece era una Smart
Si annega con poco, nell’insicurezza. Personalmente, riesco a strozzarmi con un bicchiere. Figurarsi con l’oceano burrascoso che tende ad essere il resto della vita. Sicuramente, sarà capitato a tutti quelli che fra voi tengono nel portafoglio una patente, nella tasca le chiavi di un’automobile e nelle narici l’odore pieno di una città, di ritrovarsi impantanati nella ricerca di un parcheggio. La disperata e frustante ricerca di un misero rettangolo di spazio libero dove poter posare quel cavolo di ammasso di metallo su gomme, che ci scarrozza su e giù per i nostri affari. E tu sei li, che rallenti, a chilometri dal luogo dove in realtà saresti dovuto scendere, aguzzi la vista, cerchi, prendi misure, fai i conti con i punti della patente che ti rimangono, pensi già a che scusa poter usare con il vigile, guardi ogni marciapiede e le distese infinte davanti alle strisce pedonali con il fare di un maniaco in uno strip club. E poi, c’è sempre una Volvo grigia. E per quanto se ne dica, le Volvo grigie, sono sempre dispensatrici di speranza. Dietro una gigantesca ed ingombrante Volvo grigia, lo puoi vedere, se sei attento, attraverso i vetri posteriori della maestà svedese. Il posto auto. Splendido, vuoto, accogliente. E tu ti sbrighi, perché in cuor tuo sai che chi si ferma è perduto e che in quei dodici metri che ti separano da lui, tutto può accadere. Chiunque, lo vorrebbe, il tuo posto. Chiunque, vorrebbe stare al tuo posto. Acceleri, inveisci e lasci del battistrada fumante dietro di te, per prenderti ciò che ti spetta di diritto. Passi la Volvo grigia, inchiodi sterzando, come a dire “Guai a chi si avvicina, è mio”. E nel posto vuoto, ci trovi una Smart. Una piccola, invisibile, insignificante macchina da sedicenne, ma più costosa. Ti viene quasi da chiederti, se la Smart sia stata più veloce di te. Ed invece, ti rendi conto benissimo, che la Smart, li c’era sempre stata e che il tuo occhio, t’ha fregato un’altra volta.
E sono queste le cose che mi rendono insicuro. Insicuro, insoddisfatto. Non è che mi facciano paura, è che proprio mi fanno cagare addosso. Perché ovunque, può esserci una Smart, che tu non vedi, ma pure se non la vedi, sai che può esserci. E cominci a far fatica, a frizionare come un matto, per il tuo obbiettivo. Ti fai domande, cerchi risposte, usi cautela, che prima non avevi mai avuto. Sarà lei il posto per me? Staremo bene insieme, io ed il mio posto auto? Vorrei mai dei bambini dal mio posto auto?
E’ che le gioie, le gratti via con un attimo, le delusioni, un po’ meno. Si, sono delusioni vecchie, che appartengono ad altri posti auto con cui non è andata come avresti voluto, che ora sono lontane dai tuoi pneumatici, ma come si fa a dimenticare il dolore, considerando che i nervi stanno li a dire “se tocchi la lama, sanguini, cretino”?
Forse è solo la corsa, che ci rende attivi, felici. L’obbiettivo è cosa da poco. Questo mi fa dire l’insicurezza. Mi fa dire che è la cerca, la parte bella. Per questo oggi sono un po’ giù. Perché le Smart, mi fanno triste, pure se non ne vedo. E pure se il posto auto è li, io un po’ me la sto facendo sotto. Perché dopo tutta questa attesa, trovarci una Smart, sarebbe come scoprire che il Paradiso, è a mezza pensione.