lunedì 29 marzo 2010

Frizioni

FRIZIONI
di Danilo Cipollini

all'Onestà.


Sento un grande rumore e capisco: le donne sono macchine.

Sono affetto dallo stesso male che affligge tutti, al mondo: da che vivo, cerco di dare un senso alle cose.
E’ un percorso complicato, comune più o meno a tutti.
Ho iniziato all’asilo – Questo è un Fiore. Questo è un Gatto. Questo è un Tappeto.
E da lì in avanti, sempre dando un senso. Perché Giulio Cesare ha passato il Rubicone. Perché l’acqua gela sotto gli zero gradi. Perché le note sono sette.

Fin qui, le risposte erano semplici. Qualcuno ce le forniva, un adulto, o un libro.
E’ quando subentrano i rapporti umani, o meglio: il desiderio di comprenderli, che tutto si complica.
A quel punto, non c’è libro che tenga.
E quel che ci dicono non sempre corrisponde a verità.

I rapporti umani, quelli complicano davvero tutto.
E una cosa soprattutto ti confonde l’esistenza: le donne.

Poi sento questo rumore fantastico e capisco che le donne sono macchine.
Chiariamo: macchine non nel senso di robot. Macchine nel senso di automobili.
E in quanto tali, sono fatte per il movimento.

Tutte vogliono viaggiare, muoversi, partire.
C’è chi vuole partire per lavoro, cambiare città, paese, continente. E magari, arrivata lì, parcheggiarsi.
Chi invece lo fa per godersi il viaggio in se stesso, e lungo il tragitto scoprire qualcosa di nuovo.
Chi vuol partire, magari, solo con la testa. Abbandonarsi e, cosa magnifica, sentirsi “trasportata mentre trasporta”.
Ma tutte vogliono partire, cambia solo il modo.

C’è chi ama la guida sportiva, chi quella rilassata. Chi s’inceppa ai semafori della sua vita.
Ci sono donne che vanno in prima – niente allusioni al reggiseno, please.
Si, le donne da “prima”, donne operaie, forti come trattori, poco brillanti se vuoi, ma affidabili.
Non si spengono neanche sotto l’acquazzone.
E così via, in avanti, donne da seconda, terza, donne da quinta – bellissime, eleganti, spesso silenziose: ma che consumano – TI consumano – in maniera terribile. Costosissime da guidare.

Ci sono addirittura donne da retromarcia. Le regine del passo all’indietro.
Quelle che svicolano. Che fanno inversione.

Ma, soprattutto: le donne hanno la frizione.
E’ così, hanno la frizione.
E per noi, ogni nuova compagna, è un’automobile nuova.
La vedi e ti innamori, decidi che la prendi.
Vuoi salire a fare un giro.
Non sto dicendo certo che le donne non abbiano volontà, siamo chiari. Le portiere si aprono solo e soltanto se loro lo vogliono. Tipo “Kit” di Supercar.

Talvolta lo permettono, e quand’è così tu sei felice. Felicissimo.

Allora sali. Sistemi gli specchietti retrovisori (fuor di metafora: all’inizio di una storia ognuno da uno sguardo al passato dell’altro).
Sistemi il sedile, cerchi di sentirti comodo in questo nuovo spazio, a tuo agio, cerchi di sentirti STABILE.
Agghindi la macchina con oggettistica varia, feticci della storia che vivi: nella mia prima macchina avevo un Arbre Magique verde, e nella mia prima storia, un sacchettino di velluto viola.
Addirittura, ultimamente, le due cose coincidevano : tenevo in macchina una conchiglia che mi regalò lei, una notte, sulla spiaggia. Il nostro primo feticcio amoroso. Bei ricordi.

E’ a questo punto che, reso comodo l’ambiente, SLACCI la cintura (non l’allacci, no, qui la slacci. Il codice della strada e quello dei sentimenti, su questo punto, divergono).

Quello è il momento che segna l’inizio vero della storia. Dal primo bacio, il primo rapporto carnale.
Finché la macchina è spenta, non stai guidando. Non corri pericolo (ma nemmeno provi l’ebbrezza).
Ecco che arriva il vero problema: hai messo in moto con una “chiavata” (pessimo gioco di parole), e ora devi governare la frizione. Schiacci. Metti in prima. Stacchi il piede.

La macchina si spegne. Tutto troppo veloce.

Per esempio:
“Caro, vado fuori due giorni con le mie amiche”. E’ come vedere la macchina impuntarsi. Litigate tutto il tempo via sms. Ti risvegli sbronzo la mattina dopo e… quasi quasi scenderesti dalla macchina
Ma sarebbe da codardi. Non sia mai detto. Ci riprovi. Stavolta, ti dici mentalmente, andiamo con più calma.

Frizione. Prima. Stacco, lentissimamente.

E la macchina si spegne di nuovo.

Troppo lento, la macchina s’è ingolfata. Per divertirci: spostiamo il tutto nel rapporto. Facciamo un esempio. Iil problema potrebbe essere, che ne so, che non sei “presente” nella sua vita, non hai i suoi ritmi. Questa andava bene, finché la macchina era ferma ma… ora che si muove… Non vai bene.
Sei fuori.
Dormi due notti sul divano, finché la cervicale non ti ricorda che sei vivo. Torni sui tuoi passi, mendichi una seconda opportunità.

Ci riprovi con la frizione.
E ci riproverai, ancora.
Perché è così, è più forte di te.
Siamo nati, noi uomini, con l’illusione del controllo – guidare ci piace.
Credo che la differenza sia tutta in questo: gli Uomini sono convinti di sapere dove stanno andando. In realtà il posto è sbagliato, non sanno la strada, sono contromano. Ma loro continueranno ad andare, a voler pilotare lì la loro vita, rifiuteranno caparbiamente di chiedere informazioni. Sempre. Continueranno a provare.
Le donne, che sono macchine, hanno invece una grande forza: quella di ammettere di non sapere bene cosa vogliono. Gli manca la visione d’insieme che il guidatore invece ha (ma non ha il controllo, povero lui).
Loro, sanno che vogliono “andare”, questo si.
Che sono nate per muoversi, per progredire, per evolversi. Ma come … è un mistero. Per questo, messe davanti a un bivio, probabilmente accosteranno al ciglio della strada, metteranno le quattro frecce, cercheranno di capire. E, ovviamente, essendo donne, sbaglieranno il parcheggio.

Comunque, senza tirarla troppo per le lunghe: in questo grande rumore quel che ho capito è semplicemente che le donne sono macchine, e quando sei davanti a una storia nuova è buona norma stare, per un po’, a bassissimo regime, in un parcheggio. Prendersela con calma. Fare qualche prova. Familiarizzare con la frizione, diciamo così, prima di buttarsi nel traffico indiavolato della vita normale.
Io questa buona abitudine non l’ho mai avuta. Sono sempre stato smanioso di togliere quella “P” da principiante dietro al lunotto posteriore e lanciarmi negli slalom.
Ma stavolta, stavolta ho capito. In questo raccapricciante rumore io ho capito e vorrei dirlo a tutti, vorrei gridarlo al mondo ma… mi accorgo che la gola, non risponde. Ci provo con più forza ma niente da fare. Non si muove un muscolo. Non riesco a fare nulla.
Piano piano diventa tutto scuro.

I vigili del fuoco ci hanno messo quasi tre ore a tirarmi fuori dall’abitacolo. Che potessi essere ancora vivo, era escluso a priori: non si sopravvive a un incidente così.
Fumando sigarette concordarono che la morte con me era stata cortese: non mi aveva sfigurato.
Il viso era intatto, nemmeno graffiato.
Ero morto perché il volante, nell’urto, mi si era conficcato nel plesso solare, spappolandomi le costole e spaccandomi a metà il cuore.

Sono morto col cuore spezzato, io.

Ma si, i vigili del fuoco erano d’accordo: sembravo quasi bello, tutto sommato. Lo dicevano proprio “Peccato, un così bel ragazzo”.
Sono gente dura,gente abituata a vederne, di cose del genere, tutti i giorni. Capisco che la mia morte possa non averli toccati più di tanto. Lo capisco eccome.
Solo quello che per primo che mi ha raggiunto e tirato fuori, è sembrato rimanere colpito da una cosa: avevo in mano una conchiglia.
La tenevo chiusa nel pugno, quasi come a volerla proteggere al momento dell’urto.
E infatti, la mano era ridotta a brandelli.

Ma la conchiglia, quella era perfetta.

giovedì 18 marzo 2010

La Ballata della Testa Rasata

LA BALLATA DELLA TESTA RASATA
(Breve cronistoria della mia capigliatura)
di Danilo Cipollini

Le potenti forze del Femminismo, dell’Emancipazione, del Progresso e della tendenza al Nido IKEA, combinandosi, avrebbero potuto portare le Donne a traguardi inaspettati. Meravigliose rivoluzioni. Un progressivo maturare della specie umana, anche.
Invece,tutto quel che hanno prodotto, è uno spostamento di qualche metro.

Non più regina dei fornelli, della cucina, non più mater familiae, la donna è adesso in completa identità e simbiosi col suo bagno. Anziché uscire dalle mura domestiche e invadere un mondo fin ora troppo a immagine e somiglianza dell’Uomo, le donne si sono accontentate di imitare gli uomini in pubblico, salvo poi ritirarsi, a sera, nel loro regno dorato, chiudere a chiave la porta del bagno, e lì giocare ancora a impersonare Principesse.

Diciamocelo a chiare lettere: il vecchio adagio “chi dice donna dice danno” ormai è obsoleto, superato, inattuale. Oggidì, chi dice donna, dice Bagno.
Innanzi tutto, uno specchio con cui confidarsi. L’antenato di internet, una “finestra” dei sogni (il nome windows vi dice niente?).
E, anche in bagno, Tecnologia.
Ma la tecnologia più amica che una donna sia in grado di immaginare: phon, piastra, arricciatore, e così via.
Una vasca da riempire di acqua bollente in cui potersi lasciar andare completamente al riparo dalle forze del male che imperversano nel maschilista mondo esterno. Un autentico Castello in miniatura per le moderne Principesse del Sanitario.

E soprattutto, come in ogni Reame che si rispetti, c’è anche una Bottega della Strega: creme, cremine, preparati, lozioni esfolianti per uno scrub delicato e che lasciano la pelle inebriata di un dolcissimo aroma di rosmarino e papaya.
Shampoo ai frutti di bosco e pachino. Impacco rigenerante allo sperma di mulo e fiordaliso.
Chi dice donna, decisamente, dice Bagno.

Ecco cosa la globalizzazione non riuscirà mai a modificare: il diverso approccio degli Uomini e delle Donne al Bagno.

I momenti che lo legano al bagno sono per un uomo pochi e ben distinti: anzitutto, la grande e soddisfacente cagata mattutina, vero caposaldo di ogni essere umano di sesso maschile.
Poi, la doccia, sbrigativa e ruvida, utilizzando come detergente una qualsiasi pappetta presa a caso fra quelle delle sua compagna (o madre, per l’esemplare maschio in giovane età), schierate in una fila ordinatissima sul bordo della vasca.
In terzo luogo, la rasatura – anche se qui, a onor del vero, dobbiamo dire che alcuni punti di contatto si stanno sviluppando.
Si mormora che alcuni uomini abbiano tradito, stiano passando al nemico, e abbandonata l’usanza tipicamente Unna di radersi quasi a secco, a mò di “spada-contro-guancia”, stiano iniziando a concedersi il lusso di cremine ammorbidenti, rassodanti e – udite udite – addirittura ANTIRUGHE.

I più fortunati aggiungono, a queste poche significative azioni, quella che in gergo si chiama: “Boccia”.
La boccia è una scelta: o tua, o della natura.
Chi i capelli li perde, alla boccia deve ricorrere per forza, salvo trincerarsi in quella aberrazione universalmente conosciuta col nome in codice di “riporto”.
In questo caso, è la natura che sceglie per te.

Diversamente, alla boccia puoi abdicare. Puoi rivolgertici, con dolcezza, quasi con fiducia.
Prendi me.
Sono nato pieno di capelli. Un piccolo orango nel freddo novembrino. E i primi tentativi parentali di pettinatura della mia testolina già rivelarono una atroce verità: vertigini.
Due,solo due, ma grosse. Enormi. Una davanti, leggermente sulla sinistra. E una dietro a destra (invidiabile senso della geometria, da parte della Provvidenza).
Queste vertigini mi costrinsero, dalla più tenera età, al cosiddetto “muretto”. Ovvero capelli di media lunghezza, sostanzialmente pettinati bassi, in avanti, e che poi si alzavano, in una specie di ventaglio, davanti. Una piccola coroncina nera che mi accompagnò dai 4 ai 14 anni.
Per me, la riga in mezzo era un’astrazione impossibile. I boccoli ricci che poi contraddistinsero mio fratello, una impensabile fantasia. Capelli neri, spessi, dritti, e ‘ste due vertigini maledette, una davanti e una dietro.
E quindi, muretto.

Ci furono timidi tentativi di crescita tricologica ulteriore, ma vennero sedati al confine delle orecchie. C’erano delle colonne d’Ercole all’altezza delle orecchie che gridavano “Non plus ultra”, pena la vertigine.
Tutto questo, dicevamo, fino ai quattordici anni.
Fu allora che irruppe nella mia vita in maniera improvvida una cosina chiamata rock ‘n’ roll.

Immaginate un quattordicenne grassottello. Cresciuto a pane e Claudio Baglioni da una famiglia amorevole. Renato Zero, introdotto di nascosto dal mio zio paterno, rappresentava il massimo della trasgressione. Nessuna crisi familiare, nemmeno qualche discussione.
Ottimi voti a scuola.
Un bel quartiere, periferico ma carino, curato, pieno di verde. Dove si può giocare per strada, per dirti. Senza rischiare nulla.
Lettore incallito di qualsiasi libro, qualsiasi, giuro, inclusi “I Nibelunghi”. A quattordici anni! “L’anello dei Nibelunghi”, una palla mostruosa, un libro che dovrebbe essere vietato a persone sotto i sessantacinque!
La Divina Commedia l’avevo letta a undici.

Talmente minchione da non giocare nemmeno a calcio. Facevo JUDO.
Judo, cioè le arti marziali viste da Madre Teresa di Calcutta. L’unica arte marziale in cui NON ci si fa male, mai.
E soprattutto, immaginatevi i suoi capelli “col muretto”.

Ecco, a questo punto prendete il suddetto quattordicenne e speditelo al liceo classico. Abbastanza vicino al suo quartiere dorato, ma comunque fuori. A questo punto, mettetelo a bagno nel suo ’68 personale.
Un casino. Davvero.

Ora, io all’epoca non fumavo. Mai fatto nemmeno un tiro. E, per di più, l’odore di sigaretta mi dava fastidio. Quello della canna, non ne parliamo proprio.
Quindi, quelle erano eliminate a priori.
Cosa rimaneva, del mio ’68 personale?
Sesso, e rock ‘n’roll. Furono gli anni del primo pompino. I primi approcci all’altro sesso. E, soprattutto, iniziai a cantare con un gruppo.
Probabilmente avrei voluto anche suonare qualcosa, che ne so, la chitarra. Ma la Natura m’ha creato provvisto di mano “pesante”, utile quando si tratta di riportare la pace sulla terra mediante una sonora dose di mazzate, ma inutilizzabile su qualsivoglia strumento. Però, per contrappasso, m’ha regalato una voce decente. E allora, giù a cantare.
Ed era tutto un fiorire di Led Zeppelin, di Sex Pistols, di Deep Purple. Era come sentire la vita riallinearsi. C’era solo UNA cosa che stonava: i capelli col muretto.
Così, prendo il coraggio a due mani e scelgo: diventeranno lunghi.

Arriva ferragosto. Come da tradizione, si va a casa di nonno, in campagna. Non lo vedevo da un po’, qualche mese. Appaio nel sole di agosto con il giacchetto di pelle e i capelli già lunghi fino alle spalle.
E mio nonno trasale. Ma tace.
Aspetta. Infido.
A tavola, a pranzo, davanti a tutti, la butta lì. “Cos’è” mi fa “Hai litigato col barbiere?”. E sorride.
E io, coglione, ingenuo: “ No Nonno, pensavo di farli crescere”. E lui si mette a ridere. “Dai, sul serio, quando li tagli?”.
Io ERO serio. Glielo spiego.
La risposta è di quelle da scrivere a fuoco negli annali.
“Solo i Drogati e i Papponi hanno i capelli lunghi”.
Che spettacolo. Eccolo il mio ’68 personale. Ci voleva un po’ di scontro generazionale.
A dirla tutta, a me i capelli lunghi piacevano ma già mi stavano un po’ scocciando. Scomodissimi.
Ma, dopo quel Ferragosto, quei capelli erano trascesi. Erano diventati metafisica. Erano un Simbolo. Li lasciai crescere per 4 anni. Per un periodo, mi arrivavano quasi al culo.
Continuavo a non farmi le canne, iniziavo a sbronzarmi, avevo conosciuto decisamente meglio l’altro sesso, e cantavo, cantavo, cantavo. Studiare non se ne parlava. Alla fine, me la cavavo sempre. I voti non erano più sbalorditivi, ma comunque buoni. Ed era questa la cosa che “il Nemico”, il mondo degli adulti (ignaro del mio ’68), non mandava giù.
Non era possibile, sfuggiva alle loro logiche. Uno che faceva quello che facevo io doveva PER FORZA andare male a scuola.
Questo divideva i miei professori in due grandi schiere: quelli che mi riconoscevano una certa genialità, e quindi mi amavano. E quelli, la maggioranza, che detestava me, il mio ’68 privato e la mia saccenza. L’arroganza di riuscire a non andare male pur sfuggendo alle loro regole. Alle loro ricette.
Fu con questo clima che affrontai la maturità.
Il pomeriggio prima dell’orale, andai dal barbiere (che non mi vedeva da anni e stentò a riconoscermi) e dissi solo: Taglia.
Fu la mia prima “boccia”. L’unica che in vita mia abbia tosato un barbiere. E non a caso, doveva essere lui. Non avrei sopportato che un amico uccidesse i miei amati capelli. Doveva farlo un estraneo.
Ventotto giugno, entro in aula per l’orale della maturità. La prof di Geografia Astronomica, nonché mio peggior nemico, napoletanissima, temutissima, mi guarda e fa: “Cipollini: finalmente con dei capelli da bravo ragazzo!”.
Ho sorriso e mi sono seduto mormorando: “Cominciamo”.
Gli annali del mio liceo tutt’ora ricordano che la votazione che seguì il mio esame fu la più problematica degli ultimi vent’anni. A un certo punto, la professoressa di filosofia, di cui non voglio fare il nome ma comunque si chiamava Maddalena Pinto e io la saluto, afferrò un banco e tentò con quello di percuotere una collega. Non si riuscivano a accordare sul voto. Si passava dal 98 (il 100 per me era irraggiungibile, ringraziando la bastardaggine del mio Peggior Nemico che aveva fatto bene i suoi conti), al 72. Un margine di quasi 30 punti. Surreale.
Ne uscii con 90, grazie anche alla quasi rissa.
Novanta centesimi alla maturità classica e i capelli corti.
Ma non durò. Non poteva durare.
Provai alcuni pietosi ibridi, mezze lunghezze. Una volta arrivai all’umiliazione di andare dal barbiere con una foto presa da una rivista. Ridicolo.
Questa tiritera durò poco più di un anno. Poi, il richiamo della foresta.
Tornai al lungo. Per anni e anni.
L’ultima immagine di me coi capelli lunghi è un’estate di sole greco, io e tre amici strettissimi, in sella a due motorini scassatissimi. Il mare di Rodi come sfondo. Nella testa, una grossa storia d’amore appena finita.
Ora, io non so se fu per la storia d’amore che era finita. Se fu perché cambiai sport e iniziai con la boxe. Se semplicemente era voglia di qualcosa di nuovo che parlava in me. Boh. Sta di fatto che tornato da quella vacanza mi tornò una voglia prepotentissima di Boccia.

La causa scatenante fu mio fratello, che dal canto suo odiava i suoi ricci (inspiegabilmente, erano incredibili) e quindi, da che lo ricordo, ha sempre portato i capelli cortissimi.
Quell’anno s’era fissato con i miei perché gli comprassero la macchinetta per rasare i capelli.
Quando arrivò, iniziò una specie di super catena di sant’Antonio. Lui rasava mio padre che non aveva MAI portato la Boccia ma, per compagnia, s’adeguava. Poi mio padre rasava lui. Poi entrambi rompevano il cazzo a me perché mi rasassi.
Le prime volte mi defilavo dal bagno senza rispondere.
Poi, alla ventesima insistenza, dissi: “Va bene, ma a una condizione: mi rasa Fabio (mio fratello)”.
E così fu.
Fu la prima di una serie interminabile di Bocce.
Per noi ormai è un’usanza, una specie di rito. Ci mettiamo nel bagno di casa. Lui mi bagna i capelli, me li riavvia in un senso. Poi mi chiede “Quanti millimetri?”, ma la risposta la sa già.
Tre millimetri.
E inizia a passare.
Sa a memoria dove sono le mie vertigini. Sa come prenderle, come girarci intorno, come andare a affrontarle.
Ci mette cura nei dettagli. La puntatina alle basette. Girare intorno all’orecchio. Non lasciare capelli più lunghi, da nessuna parte.
Perché fare la boccia è una forma d’amore.
E, per chi si affida, è un gesto di grande fiducia.
La Boccia è lo stato definitivo, l’ultima frontiera. Se il barbiere sbaglia a farti i capelli… poco male. Tu sai che, male che vada, puoi sempre accorciare di più. Scendere ancora. C’è sempre la Boccia, come limite estremo. Ma dopo la Boccia non c’è nulla. Solo la pelle. La “buccia”, per così dire.

Quando è ora di rifarti la boccia, te ne accorgi. Improvvisamente i capelli sono troppo lunghi. Magari fino a due ore prima ancora andavano bene, poi li guardi, e vedi quel bozzetto, o quella piccola piega e dici: è ora.
Ed è un bisogno impellente.
E’ capitato, ovviamente, che io avessi questo bisogno… e mio fratello non ci fosse.
In quei casi, data l’impellenza, mi sono lasciato guidare dal sentimento. E mi sono affidato, principalmente,a due miei amici.
Quel che m’ha colpito è quanto ognuno di loro ci mettesse di se nel tagliarmi i capelli.
Quando l’ho chiesto a Giuliano, l’ha fatto a modo suo. S’è acceso la sua sigaretta, abbiamo stappato una birra, messo un po’ di musica. S’è levato gli anelli, la catenina, s’è messo in canottiera, e con la sigaretta penzoloni fra le labbra ha iniziato. Calmo. Tranquillo. Chiaccheravamo. Sarà che lui è pelato, quindi poter avere a che fare con dei capelli non gli dispiace. Gli fa un po’ nostalgia.

Quando ho chiesto a Federico, è stata una cosa rapida. Nervosa, come lui. Scattosa, tanto che non son venuti proprio tutti pari, sono rimasti certi ciuffetti. Una specie di confusione, delle note stonate nella Boccia che, per antonomasia, è l’ordine. La pulizia.

L’unica volta che l’ho chiesto a Giulio, all’inizio era un po’ spaventato. Come se avesse paura di sbagliare. Poi però, presa in mano la macchinetta, è stato perfetto. Preciso, Concentrato. Silenzioso, attento. E’ stato bravissimo. Ma credo non si sia divertito, per questo non gliel’ho chiesto più. Perché m’è sembrato che la vivesse con stress.

Eccola qui, la mia Ballata della Testa Rasata. E’ una canzone maschia e veloce che sussurra una verità: se vogliamo conoscere meglio i nostri amici più stretti, non serve regalare loro il nostro cuore, o la nostra anima.
Basterà affidargli la nostra testa.

venerdì 12 marzo 2010

Aspettando i Lampioni

Si fumavano sigarette spente, che non c'era un cazzo da festeggiare. A quel tempo c'era un tempo peggio del colera, con lo scemo che pure lui stava zitto, tanto male si stava.

Aveva smesso d'urlare un paio d'anni prima e aveva svuotato la piazza, rimesso i pantaloni. Al pettine rimanevano due denti, così decisi di farlo, di tirarmeli via quei ricci. Ma l’avrei fatto più tardi, quando il sole al suo picco me li avrebbe fatti bestemmiare, quei capelli. I miei capelli. Nessuno ce li aveva come me. E la bella lo sapeva. E fra tutte a lei toccò il velo della sposa nera, moglie d'un marito morto, che due anni fa lo scemo trovò appeso al ponte che il vento se lo portava, col viso d'acqua e acquitrino e la camicia pulita, le mani alla schiena, che da solo non c'era salito a mettersi il cappio. E la sposa lo sapeva. E il lutto investiva le strade a vederla passare, la sposa nera. E sentivo l'elettrico della tempesta che doveva farsi respirare fra poco e sentivo i pantaloni tirare a vederla che l'avrei morsa e strappata e spezzata e lasciata a piangere il pianto, li, dietro il fienile. Se solo non fosse stata moglie d'un uomo che nato e cresciuto come mio fratello, mio fratello era morto. Neanche un fazzoletto avevo bagnato al suo arrivederci, che presto l'avrei raggiunto, che non eravamo anime buone, all'inferno l'avrei raggiunto. C'era stato il nemico a portarlo due anni prima sulla fune, ed ancora le impronte riuscivo a vedere, degli scarponi e dei piedi trascinati d'un mezzo cadavere. Si stava male, a quei tempi, d'un male che la peste ci sembrava uno scherzo. D'un male che a seppellire la gente si provava invidia. L'abbazia l'avevano chiusa e i vecchi non erano ancora troppo vecchi e il pensiero del fronte non ce l'aveva nessuno. Il sole bruciava e se non c'era, il nuvolo ci tirava addosso il diluvio, il diluvio da mettere le sacche giù al fiume, con la paura di perdere quel niente che neanche avevamo. S'era fatto quasi il tocco del mezzogiorno che tirai la prima imprecazione. Decisi che non era più tempo di mandarla a dire. Inforcai le vie, coi bambini che riuscivano a nascondersi dietro ai bastoni, che avevano in faccia l'orrore del dover aspettare tutta una notte prima di svegliarsi e respirare un'altra volta. Scesi dove c'era quello con le lame pulite, e mi sedetti, senza dirgli niente. Lui mi chiese, titubava. Non risposi e mi accesi la sigaretta, guardando dritto, con i denti stretti. Lui capì. Me li levò dalla testa, tondi come erano, perfetti. Cadevano a terra come picconi, scavandomi dentro. Dopo una ciocca, un'altra. M'alzai alla fine e guardai la terra. Ne avevo proprio tanti. Buttai l'ultimo tiro, perché niente, niente doveva rimanermi. M'asciugai il viso dopo averle cacciate fuori salate. E niente, niente m'era rimasto. Risalii e li presi uno per uno. Neanche un solo uomo mi chiese dei capelli. Neanche un solo uomo mi chiese, dove, o perché. Andammo dietro l'abbazia, in una casa piccola e prendemmo tutte le armi e prima della notte stessa ci saremmo stati giù al fronte, senza averci mai pensato davvero.