lunedì 31 maggio 2010

Tetrapiloaforistica #5: aritmetica caraibica

...che qua fanno dei rum e coca che uno basta, due ti rimettono al mondo e tre ti mandano all'altro.

domenica 30 maggio 2010

Post postalcolico, postprandiale ma soprattutto postumi

Questo post è nato ieri notte, fra le due e le cinque del mattino, aveva tutt'altro contenuto e un titolo completamente diverso; ma è lo stesso post, giuro, solo che s'è svegliato sfatto stamattina, e allora s'è dato una restaurata prima di presentarsi a voi, per non fare brutta figura.
Il titolo ieri sera era "Rum e cola, grasse bassline e puzzo di piscio" e dissertava sui piaceri di saltellare in cinquecento su un fazzoletto di terra battuta, dell'essere sudati e fangosi, dei cani che passeggiano nei centri sociali. E del fatto che io riesca a provare sconfinato amore per tutto questo senza nemmeno una qualche giustificazione psicoattiva; escludendo ovviamente l'alcol, che però non è noto per far provare amore, al massimo sesso, e solo se lo beve lei, possibilmente in quantità esagerate.
Questo ieri, ma visto che oggi ci sentiamo stanchi, io e questo post, e la luce ci fa male agli occhi, ci guardiamo l'ombelico; benvenuti quindi in un post ombelicale (volevo scriverlo in un post, prima o poi, e ora lo riscrivo anche, O-M-B-E-L-I-C-A-L-E, tiè).
Detto questo io e il qui presente post vi salutiamo e ci andiamo a stendere un paio d'ore, lasciandovi con la piacevolissima immagine di me che mi guardo l'ombelico (e se ieri sera avete trattenuto a stento la cena, con questa scena appena dietro gli occhi sicuramente il pranzo non lo trattenete), e comunicandovi che Tetrapiloctomia alla buona sta diventando una cosa terribilmente seria, e che questo è il suo centesimo post. [Applausi]

sabato 29 maggio 2010

Tetrapilocronaca #4: Studio Aperto

Finalmente, torna il bel tempo.


Maroni sugli immigrati: "Meglio accordi che pattugliamenti"









venerdì 28 maggio 2010

Tra Viale Zara e Marrakech

Tra Viale Zara e Marrakech (tarantella per il giovane leghista cinico)
di Danilo Cipollini


“Immagina Roma come un buco di culo, con il Raccordo Anulare a fargli da cintura, e dentro sei milioni di minuscoli cazzi che si dibattono per sfondarlo.
Milano pensala come un naso imbiancato di coca che tira su rumorosamente e si gode le ultime botte, Torino come il cervello operaio e buio di quel naso, strafatto di quel che Milano tira, messo a mollo nella nebbia.
Genova e Venezia sono occhi blu mare, con le pupille ristrette, che guardano fisso verso sud, verso Firenze, cuore pigro di questa nazione.
Napoli è un pene, mollemente adagiato su un fianco, senza spunti di vitalità, senza alcuna eiaculazione - tolte quelle che offre il Vesuvio.
Da lì in giù, il resto dell’Italia sono solo gambe. Gambe da donna, gambe da puttana, bellissime da guardare ma sostanzialmente inutili. Un corpo vive bene anche senza gambe. Lo sanno tutti.”
Diego rilegge quello che ha scritto. Non è male, è un buon inizio.
Pure i ragazzi della sezione lo chiamano “lo scrittore”, perché lui è quello che scrive sempre gli articoli che mandano al giornale.
Giornale… Giornaletto, ecco. “Voce Padana”. Un paio di centinaia di copie.
Però s’è fatto un po’ di nome, articolo dopo articolo.
Cristo quant’è tardi. Le nove. Qua in Padania, alle 9 si è già mangiato da oltre due ore.
Meno male che a casa sua si mangia tardi, di solito.
Diego si alza e raccoglie i fogli. Li infila nello zaino e spegne tutte le luci.
Due mandate di chiave e via, fuori, in strada.
Diego esce dalla sezione della lega nord di Biassono.
Il motorino fila veloce per le strade. Fende piazza Italia già deserta, tutta la brava gente lombarda al momento è in casa davanti alla tv. Gente onesta, gente generosa, che lavora duro.
Gente orgogliosa.
E che rende Diego orgoglioso di farne parte.

Diego ferma il motorino dietro un angolo tranquillo. Si tiene il casco in testa. Dallo zaino sfila una bomboletta spray. Verde, verde Padania. Inizia a camminare, senza fretta. Fa una cinquantina di metri. Riconosce un muro giallino e si ferma. E’ casa del suo amico Giuseppe,.
Peppe.
Peppe è nato a Catania. E’ un terrone. E’ venuto a nord coi genitori quando era piccolo, alle elementari stava in classe con Diego. Poi, si son persi di vita. Ha appena rilevato un bar, il bar che era di un onesto Padano… non va bene. Non va per niente bene. Quindi quelli della sezione di Diego hanno deciso di dargli un segnale. Per fargli capire che proprio non ci siamo.
E lo deve fare Diego.
Quasi gli dispiace. Lo conosce, da ragazzini stavano al banco insieme. Ma lo dice anche Umberto, il Senatùr “Chi vuole sposare la Lega poi deve seguire gli ordini”.
La mano guida il getto di spray sul muro. Poche parole costellate di un ottimo dialetto lombardo. Un invito esplicito a ripercorrere indietro la strada che lo riporta in Sicilia.
Diego corre.
Torna indietro al motorino, salta in sella, schizza via.
Il cuore pompa.
Diego accelera.
Diego.

Ogni volta che arriva davanti casa sente una fitta allo stomaco.
E’ sempre così. E’ sempre peggio.
Pensa ai suoi 19 anni, ai progetti che lo portano lontano da casa. Quanto ci vorrà ancora? Un anno? Due? Non importa. “Tegn dur, mai molàr”. Così si dice, da queste parti. Tieni duro, mai mollare.
E se lo ripete, mentre sale le scale.
Tieni duro, mai mollare.
Mentre cerca le chiavi
Tieni duro, mai mollare.
Mentre apre la porta.
Tieni duro, ma... ma…mma. Mamma.
“Ciao, mamma”.
La signora corpulenta si alza dal divano con agilità insospettabile e spegne la tv.
“UEEEE!! DIEGHI’!! Sì tturnate?? Bello a mammà! E come è andata, eh? Dillo, dillo a mammà! Tutto bbuono?”.
Diego Armando Esposito sospira.
La sua famiglia proprio non la regge più.
“Si mammà, andò tutt’bbuono”.

“Mi fa piacere assai. Vieni in cucina, che mammà ti ha fatto la frittata di pasta …”.

E Diego si consola un po’ pensando che almeno, la frittata di pasta alla polenta gli rompe il culo.

Tetrapiloaforistica #4: audiodeterminazione

Infrangi ogni silenzio che non vuoi accettare.

giovedì 27 maggio 2010

Quel che deve restarti, poi (Hole iz that j’adore)

Quel che deve restarti, poi, alla luce del sole, è quella meraviglia che t’ho disegnato sul volto, in una “O” perfetta. Perché nessuna, e dico nessuna, ha mai saputo sorprenderti come ho fatto io. Quel che deve restarti, non andarlo a cercare nel disordine scomposto della nostra follia. Non andarlo a cercare nelle confezioni scartate dei preservativi – che stringevano troppo -. Non siamo stati presi dalla notte per essere dimenticati. Il giorno è solo un intervallo, fra i nostri bisogni, e la mattina, questo non può cancellarlo. Si, le cose che devono restarti, non cercarle nelle impronte delle mie mani. È un viaggio che abbiamo fatto insieme e sono sicuro, che li, sul muro, trovarai le tue stesse orme. Quel che deve restarti, non è nei numeri da circo in cui ci siamo prodigati. Siamo stati piuttosto un puzzle che non combaciava, ma che, per come l’abbiamo messa, s’incastrava. Vedi, che poi alla fine, la vita è come le lenzuola che abbiamo lasciato. Stropicciata. E dove tirarle, l’abbiamo deciso noi. E aspetta a dire che la cena non è rimasta. Hai presente quando t’ho detto che andavo a rifarmi il trucco? Ho mentito. - A proposito, hai lo scarico rotto, chiama l’idraulico, ti ho lasciato il numero sullo specchio -.
So che ora, t’ho lasciato un vuoto dentro e so come ci si sente. Ma se i discorsi non sono rimasti, quel che ancora c’è, è che deve farti ricordare di me, è quella tua camminata strana, testimonianza d’una circonferenza brasiliana. Soltanto una cosa, non ti resterà di sicuro.
Sono i cinquanta euri sul comodino.

Un bacio sulla cappella,
Fernandinho do Brasil

Quel che resta poi

Quel che resta poi, alla luce del sole, sono piatti sporchi che nessuno si è preoccupato di lavare e calici ombrati di rosso: il mio solo di vino, il tuo anche di rossetto, a disegnare il contorno delle tue labbra.
Quello che resta poi sono candele consumate, un letto sfatto, lenzuola da lavare per togliere via le macchie del tuo piacere; e finestre da aprire, per togliere l'odore di sudore e sesso che si attacca alle pareti.
E poi, una scatola vuota, piena delle acrobazie lessicali che solo i produttori di profilattici sanno fare, e le confezioni quadrate strappate, a ricordare la natura usa e getta della serata; e i segni sulla schiena, i muscoli stanchi e la forma netta delle tue mani sul muro appena dipinto, V-A-F-F-A-N-C-U-L-O!
Non è rimasta la cena, mangiata distrattamente, digerita e poi consumata seguendo il ritmo più semplice, antico e animale che ci portiamo dentro: una teoria di singoli colpi protratti all'infinito, fino allo sfinimento.
Non sono rimasti i discorsi e le parole di carta, dette senza nessuna ragione se non quella di farti dare un tono, per fingere la mia necessità di corteggiarti e sedurti, per nascondere che tu, qui, sei venuta solo per avere un uomo fra le gambe.
Quello che resta poi, quando il sole viene a cancellare tutte le illusioni e le menzogne, è la tua paura, e il bisogno di un letto per sentirti ancora giovane e attraente, e la mia solitudine, che con le palle vuote e gli ormoni sfiancati, è libera di urlarmi in faccia tutta la sua terrificante esistenza.

lunedì 24 maggio 2010

La dama, il giullare e il re 2: A ogni dama il giullare che vuole

Mia dama vi chiedo perdono,
che far ciò che faccio io devo,
il mio compito è causare il sorriso,
ma non sempre nel farlo io rido.

Ogni dama ha il giullare che vuole,
che legga sonetti o che faccia capriole,
ma non sempre riesce a vedere,
che c'è un uomo dietro ogni giullare.

Tu lo conosci che è sempre ridente,
da quando ti svegli a che il sonno ti coglie,
ma non conosci il giullare davvero
quando è chiuso nelle sue stanze,

quando la notte la corte è silente,
e toglie colori sgargianti e campane,
tu non sai quanto è uomo la sotto
lo strato di trucco dal doppio colore.

Il giullare ti giuro non piange davvero,
ma sul suo volto non trovi sorriso,
anche lui ha il limite di tutti i pagliacci,
lui non può rallegrarsi da solo.

Dolce dama che nega il suo nome,
e il cui volto invero non scorgo,
ti sfida l'uomo che è dietro il giullare,
a fargli fiorire un sorriso sul volto.

Requiem

Oggi
Uno scrittore muore, e centomila giorni di festa.
Uno scrittore muore, senza esser tale.
Centomila giorni di festa.
Grida che s’è spento, un calvario lo appaga. E quel che è incontrovertibile, inappagato rimane. Che oggi si spengano la fiamma ed i falò. Niente sere ad augurargli un augurio che sia. Oggi si spense, reciteranno il requiem. Oggi morto s’è fatto, uno scrittore che è morto di fatto. Non è un colpo al cuore?

No, non lo è.

Oggi si spegne il solco e affanculo il resto.
Niente altro da dire, sulle bocche di tutte, messe e preghiere. Mea culpa, mea culpa.
Messe e sorrisi.
Cento mila giorni di festa.
Oggi si spegne un uomo che muore, che vizio, per caso, lo voleva chiamare scrittore.
Sua colpa. E poi messe e lamenti. Oggi si affaccia al mondo un uomo che muore scrittore.
Cento mila giorni di festa.
Addio, signori e signore.

venerdì 14 maggio 2010

La dama, il giullare e il re

"Dove sei, giullare?" chiese il re leggero.
"Eccomi, mio re" disse in un tintinnar di campanelli il giullare sapiente.
"C'è una dama alla mia corte, giullare, nei cui occhi non scorgo la gioia. Va giullare, riporta la gioia in quegli occhi, che alla mia corte non voglio tristezza".
"Mio sire, conosco la dama di cui state parlando. Ella è affetta da un male che non posso curare con una battuta ed un tintinnar di campanelle. Solo il tempo, e la sua volontà, hanno questo potere." Rispose mesto il giullare.
"Ma andrò, e farò ciò che è in mio potere.
La ubriacherò con risa, con vino e con ballo,
le insegnerò la quadriglia del matto,
che di quattro battiti non suona che il terzo,
le farò un dono che duri una sera,
il privilegio di una testa leggera,
riscoprendo il gusto di ballare da sola.
Questo io posso mio re,
non mi è dato curare quel male,
solo, per una sera, lenirne il dolore."
"Va giullare, fa quel che puoi, tutte le volte che devi. Tutto quello che voglio è scorgere ancora gioia in quello sguardo."
E il giullare andò, con una capriola ed un balzo, con risa ed un accenno di passi della quadriglia del matto.
"È pazzo" pensò il re leggero "ma nella follia lui ha la cura per tutto."
"Mio re" pensò mesto il giullare sapiente "avrai quel che chiedi, ma pagandone il prezzo più alto.
Della dama che ami avrò cura,
che sia per una sera o più d'una,
caparbio carpirò la sua fiducia,
per farla sentire leggera e sicura.
Poi soffierò fra le sue ceneri spente,
alla ricerca di braci nascoste,
invisibili a tutta la gente comune,
ma lampanti per gli occhi di un folle.
Soffierò ancora per portarle alla luce,
per farle ardere di fiamma vivace,
fatta di gioia e di vita vorace,
che negli occhi, mio sire, riluce.
E lei ballerà la quadriglia del matto,
scoprirà che si balla anche senza compagno,
scoprirà che si vive ad un livello più alto,
e di te, mio re, non cercherà più lo sguardo."

giovedì 6 maggio 2010

Idrogrammatologia 7: Anche le società più civili hanno qualche difetto

Sto pensando ad una società in cui un concetto come l'omofobia non è nemmeno comprensibile, in cui domandare dei gusti sessuali equivale a chiedere se si preferisce il dolce o il salato.
Sto pensando ad una società in cui la libertà di culto è assoluta, in cui gli edifici di culto delle varie religioni e divinità sorgono gli uni accanto agli altri, in cui nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione l'altrui credo.
Sto pensando ad una società cosmopolita, in cui la diversità è ricchezza, in cui le varie culture si confrontano e si integrano per dar vita ad un qualcosa di nuovo ed in continua evoluzione.
Sogno una società in cui è scontato prendersi cura dei propri dipendenti, una società in cui ogni singola persona è un investimento da portare avanti e curare, dove, di fronte alla proposta di un lavoro a tempo determinato, sarebbe il capo stesso a riderti in faccia.
Certo, i romani davano i cristiani in pasto alle belve affamate; ma di fronte all'alto grado di civiltà raggiunto questa piccola barbarie impallidisce, e stiamo comunque parlando di quasi due millenni fa.
E poi in fondo è vero che i leoni li affamavano, ma di fame non ne è mai morto nessuno!

martedì 4 maggio 2010

Coma da suggerimento: Ho visto Stella cadere

Chiaccherando con M, e raccontandole le ultime peripezie, lei mi ricorda questo racconto. Che in più di un anno e mezzo di vita, non è affatto passato di moda. Qui su Tetrapiloctomia non c'era... Vale la pena postarlo.
Enjoy.



Ho visto Stella cadere.
di Danilo Cipollini



Se ci fosse un interruttore che ti spegne, giuro, lo userei.
Bastasse premere un bottone per dimenticare e ricominciare da capo, non ci penserei un secondo.
Non c'è metodo per sollevare ciò che muore, è vero, ma ho scoperto che anche uccidere ciò che ancora vive è tutto fuorché facile.
Vallo a spiegare a un cacciatore. Vallo a spiegare a un macellaio, o a un assassino.
Ma soprattutto, vallo a spiegare alle vittime.

Mentre tutto questo mi viene addosso, nonostante tutto questo che mi corre addosso, tu mi chiedi di aspettare.

Sono seduto a Corso Buenos Aires, nella tua Milano, davanti a me passa una modella che fuma elegantemente una sigaretta e, svogliata, occhieggia le vetrine.
Andrea G. Pinketts, nei suoi libri, ne ha descritte tante delle modelle di Corso Buenos Aires, ma tutte mute. Tutte oggetti, Veneri di nicotina e fard, abili per lo più al piacere dell'uomo o da tenere buone per l'alcolismo.
Io oggi vorrei dar loro la possibilità d'un riscatto, farle finalmente parlare, Cristo, che qualcosa avranno pure da dire.
Così prendo Ingrid (questo è il nome che le ho dato) e di lei, più che il culo nudo, immaginerò la mente.
Torniamo allora dalla nostra Ingrid, che cammina elegante ma non troppo, sui tacchi aguzzi come pugnali, le gambe lunghe dalla pelle chiara che filano, strette, sul marciapiede coperto di mozziconi, il vestito nero che svolazza poco intorno alle ginocchia nude.
Un tacco si impunta e l'andatura quasi elegante si scompagina un secondo, Ingrid piega sulla destra, sembra quasi che cada, magnifica quercia tradita da un minuscolo taglialegna, ma si riprende, tiene duro spingendo sui lombi allenati e nello spazio di due metri riprende postura e eleganza.
Unico segno tangibile della quasi-caduta, fra le sue dita è scomparsa la sigaretta, che ora rotola sul selciato lasciandosi dietro piccole colonne di fumo. Sibila “Merda”, con un forte accento del nord Europa (Norvegia, Danimarca forse, ma più probabilmente Svezia), riavvia con la mano il fatale caschetto di capelli rossi e fulmina in basso con lo sguardo la traditrice di carta e tabacco che lentamente muore a terra, nell'indifferenza generale.
Lentamente muore anche Ingrid, muore dentro da un mese, da quando Stella non c’è più.
Stella che le illuminava il cuore, Stella modella, anche lei, che vive a Roma in una casa dalla quale, certi giorni, si sente l’odore del mare. Stella sorella, stesse esperienze, stessa sorte, stessi timori, stessi incubi di plastica. Stella gemella, quasi, per quanto forte, e bello, era il loro amore. Stella che era così diversa da lei, così razionale, così calcolata, Stella che amava in piccole cose e rifiutava i gesti teatrali. Stella che un giorno ha detto “Qui non c’è più nulla che possa darti. Vorrei che non ci vedessimo più.” ed è partita, sparita, Stella che è caduta, confus, dice, e dice che ora no, ora si deve ricostruire, ora non si può più.
Ingrid alza gli occhi e mi guarda. Non guarda verso me, guarda Me. Non servono parole perchè viviamo nello stesso dolore, un mondo a parte in cui tutti gli altri ci sono ma sono ovattati, lontani. Si avvicina con lo sguardo più vero che mi riesce di immaginarle in faccia e accendendo un’altra sigaretta mi dice solo “ Ho visto Stella cadere”. Poi si siede accanto a me sulla panchina di legno e per un po’ stiamo zitti. Sigaretta lei, sigaro Toscano io. Zitti, che a parlare ci pensa già Milano. Passano un paio di minuti quando si volta e mi fa “Piacere, Ingrid”. Non le regalo il mio nome ma tiro un’altra boccata e le chiedo “Ha fatto male?”, come se non conoscessi già la risposta.
“Lo sai che fa male”.
“Già, ne ho una vaga idea”. Sorrido.
“Io ho idea che tu sei qui per lei”, mi fa.
“No..cioè si... cioè Ingrid non lo so, davvero. E’..assurdo, è incredibile come la confusione di un altra persona... poi può diventare la tua.”.
Segue silenzio imbarazzato e amaro che ci lascia il tempo per fumare il fumabile.
Quando la punta del Toscano è così corta che il calore mi brucia le labbra a ogni tiro, lo butto.
Devo essere proprio conciato male se una bella donna in crisi per amore mi abborda in cerca di conforto e non per un amplesso che le riabiliti un paio d’ore.

E all’unisono, all’improvviso, gli occhi fissi sull’asfalto, diciamo “Se ci fosse un interruttore...”. E ci fermiamo, sorridendo per quel pensiero diviso a metà, le faccio segno di continuare lei, anche se questa frase la conosco già. Spegne lentamente il sorriso e dopo un istante “Se ci fosse un interruttore”, ripete, “per spegnere i pensieri, lo avrei premuto un mese fa.”.
Stràli di fritto vengono scoccati dal Mc Donald’s qui davanti, ora che il sigaro non mi protegge più con la sua cortina densa di fumo arrivano tutti a segno.
Ingrid mi chiede l’età e quando gliela dico scuote la testa e non ci crede. Mi sfida alla prova e le passo la carta d’identità per difendere quel che ho detto, manco fosse un carabiniere. E in effetti è furba, troppo furba per essere un carabiniere, perchè con questa mossa ha scoperto non solo l’età ma anche il mio nome.
“Sembri più grande, Danilo... Sei invecchiato in fretta”. Colpa della boxe e di una donna, dico io.
“Ognuno ha la sua Stella da guardare cadere”, rincaro la dose.
Stringe i pugni e si alza di scatto, fa per andarsene, si volta dopo un paio dei suoi lunghi passi eleganti e mi dice “L’assurdo è che dopo averla vista cadere, l’unico desiderio che riusciamo a esprimere è che torni presto al proprio posto”.

Poi si volta e se ne va, lasciando scivolare dalla borsa quello che sembra un biglietto da visita, guardandolo mentre plana quel tanto che basta a farmi capire che è un caso.
Si allontana a passi veloci. Splendida.

Guardo il biglietto dalla panchina e non lo raccolgo. Vado via, accendendo un altro Toscano.

Dopo aver visto cadere una Stella, chi guarderebbe cadere un biglietto?

lunedì 3 maggio 2010

Scleropatomittenza 8: come stai?


Undici del mattino, sveglio da due ore dopo quattro di sonno agitato.
Spengo la quinta sigaretta, chiudo la terza telefonata di lavoro, ed è un'ora e mezza che soffoco inscatolato nel traffico.
Cinque tre, e chi vuole intendere intenda, per me ormai è un mantra.
Nelle gambe ho quaranta chilometri e due notti a ballare, sulla pelle le ustioni del sole e il gelo dell'acqua di mare i primi di maggio sotto un cielo color piombo, nello stomaco un fine settimana senza smettere di bere, nemmeno per sbaglio; dentro ho dei pezzi che non ne vogliono sapere di tornare insieme, e intanto qualcuno urla e scalcia e non ne vuole sapere di smettere di far danni.
Lunedì mattina rabbioso e compresso, alla ricerca di un week-end come valvola di sfogo; capiscilo da solo che oggi è inopportuno, volendo anche pericoloso, chiedermi "Come stai?".