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mercoledì 24 febbraio 2010

M'hanno detto che non sono sereno

M'hanno detto che non sono sereno.
Escludiamo la mia situazione personale che, si, al momento navigo a vista con una benda sugli occhi e non è la cosa più piacevole che si possa immaginare, e soppermiamoci un attimo sul concetto di serenità.
La serenità viene considerato un qualcosa a cui aspirare, un fine ultimo della vita.
Ma chi ha il diritto di aspirare alla calma, la pace, la quiete che a essa si accompagnano?
L'uomo maturo, dopo aver lavorato una vita, costruito una famiglia e reso i figli in grado di camminare sulle proprie gambe, solo allora ha questo diritto.
Il guerriero, dopo aver combattuto tutte le battaglie che poteva e doveva combattere, con che esiti non ha importanza, acquisisce questo diritto.
Ma io? Ma noi?
A venti, a trenta, a quarant'anni la serenità non ci deve appartenere neanche per sbaglio. Non in questa Italia. Non in questo tempo. Dovremmo essere guerrieri in lotta con tutto, per tutto; per un futuro migliore, per un paese migliore, per essere persone migliori. Incazzati, vivi, felici, alla ricerca, in dubbio ma mai, mai sereni.
Mai in quiete, seduti felici ad accettare la vita; mai fermi, acritici, mai passivi di fronte a quello che ci viene incontro.
La serenità, la quiete, la pace prima della pensione sono il male, la morte mentale, sono la stasi che porta alla perdita di significato di ogni singolo giorno da qui alla fine.
E quindi no, non sono sereno, e sono felice di non esserlo; oggi perchè sto demolendo e ricostruendo me stesso, cercando di trasformarmi in una persona migliore, ieri e domani perchè sono stato, e sarò, in lotta con il mondo, per renderlo qualcosa di più adatto a me, a voi e a chi verrà dopo, quando avremo raggiunto una serenità finalmente meritata.
E ora ditemi, vi sentite sereni? E vi sentite felici, di questo? 

giovedì 31 dicembre 2009

Sbilanciandomi in un bilancio. Un anno di me. Duemilanove.

Sono qui, sull’uscio e tiro un sospiro, che, lo dico sottovoce, sa di ideali. A cavallo fra un giro ed un altro, pronto ad entrare nel prossimo vagone, mi soffermo, per un minuto che sia uno a vedere cosa mi sono lasciato alle spalle.

Quest’anno, è nato come quello prima e quello prima ancora. Con me schiacciato nel mezzo di una vita non mia. Tramortito dalla paura di uscire da quello che (ora me ne rendo malinconicamente conto) non era più un mio sentimento, da molto tempo. Con me, che non riuscivo a scappare da una ragazza che probabilmente non avevo mai amato e che miseramente non riusciva né poteva darmi nulla, non avendolo nemmeno per se. Con me, morto nel mio cantuccio ad aspettare che il giorno mi facesse compagnia nella fossa, perso come ero fra deliri ed attacchi di panico e fobie inspiegabili. E così è stato per sei mesi. Davvero crudeli, quegli ultimi rantoli. E poi, un giorno di maggio, tutto è cambiato. Lei mi ha lasciato. E mai cosa migliore sarebbe potuta accadere in vita mia. All’inizio, non capii il bene che mi stava facendo. Non percepii che mi stavo liberando di inutile zavorra. Ma è proprio vero che è maggio, il mese delle fioriture e dei colori. E ho cominciato a vederli di nuovo, uno ad uno. Amicizie di vecchia data, messe ingiustamente in un cassetto a prendere polvere, sono state rimesse al posto che loro spetta, fra i miei punti fermi. E persone che ho avuto modo di conoscere davvero dopo tanti anni, si sono rivelate le migliori con le quali io avessi mai potuto avere a che fare, semplicemente fantastiche. E poi quelle nuove, non son state da meno. E’ così, che ho ricominciato a sentire. La voglia di esserci, la voglia di scrivere e di scrivermi come in pirografia, su tutte le mie giornate. E la forza, quella appassita un tempo, di affrontare e lottare e superare ogni strafottutissima paura. Niente più attacchi di panico, nemmeno prendendo di petto quel monte insormontabile che era per me, viaggiare in aereo. E vedere gli ingranaggi che girano, osservarli e carezzarli. Soave. E cogliere con le mie stesse mani l’innamoramento, che pensavo fosse un sentimento che potesse appartenere solamente all’adolescenza. E invece è incredibile scoprire come tutto fosse sbagliato, fuori fuoco. Ora non lo è più. Ora il cambiamento, mi percuote costantemente, mi rende instabile, donandomi un brivido, se lo cavalco. E ora, lo cavalco, senza preoccuparmi troppo di tenermi stretto alla sella. Era così che vivevo, è così che sono tornato a vivere. Certo, invece di tre giorni, ci ho messo tre anni, per uscire dalla tomba. Ma cazzo se ne è valsa la pena. E Orsera, e Barcellona e le risate, le sigarette, le nottate, gli scazzi, le confessioni, i fiumi di alcolici. Tutto. Tutto quello che mi mancava. E’ un respiro che sa di ideali, perché, un tempo nella libertà ci credevo. Ed ora che libero non lo sono solo di nome, me ne riempio i polmoni.

Avrei dovuto scriverlo in maniera diversa, cesellando le parole, schivando la retorica, curando questa forma stentata. Ma non mi andava, perché è proprio così, che è stato questo cazzo di duemilanove. E questo non è un racconto, ma una confessione.

Un ultimo ringraziamento lo lancio ai miei amici, quelli veri, che sono pochi, intimi e davvero grandi. Siete i migliori, oltre agli svariati buffi che ho, vi debbo una vita.

E poi, grazie a Lei, che mi ha fatto crescere, facendomi tornare quello scemo diciassettenne che ero. Con gli occhi a cuoricino.

Ci vediamo fra qualche ora, sul prossimo giro di otto volante.

Con affetto, Alessandro