- C’è la storia dell’uomo morto, fra quelle che so. Que pasa, amigos? Non ci vuoi credere? L’ho visto una volta, te lo giuro sui miei guevones. E’ la storia di un uomo che non tiene nome, ma se una scorreggia facesse scintille, ecco, quello sarebbe il suo nome. Se è una storia triste? No, hombre, non lo è. Non c’è nessuna er.. come dite… es… romantica. Non c’è sogno, in quel che dico, non c’è passione, y sientimento. Non c’è passato nemmeno Dio, in questa storia, intiende? Tutto era nove, dieci anni fa. Forse venti, non che importi poi, in questo buco di culo di posto. Ero seduto proprio li, dove sei tu adesso. Era caldo, torrido, come siempre, ma di più. Le mie chiappe erano sudate, e avevo bevuto solo il giusto, quel che basta a sopravvivere. Al tempo eravamo dieci peccatori e due preti in tutto il villaggio e il mezzogiorno stava zitto come un bastardo. Ma non quella volta. Quella volta era vento, y ronzio. Y tintinar.
L’orco guardava l’ospite, sornione. E con lentezza indicò la porta del saloon, l’avventore seguì lo slancio con gli occhi. Il mondo stava fuori ed il deserto con il suo niente, si muoveva un passo dietro al tempo. C’era rosso e liquore per cielo, la sabbia in turbine danzava gitana e insolente. Allora, l’ospite sentì.
Y tintinar.
Ma non era come se l’aspettava. Non era uno scampanellio. Sembravano invece nacchere. Secche, regolari, dipinte all’orecchio con mano ferma. L’ospite mise mano all’impugnatura di sandalo d’una pistola precisa, e si precipitò all’uscio. La campana vibrò i suoi rintocchi come fossero preghiere. Come sono fatte le parole, così arrivò l’aria, ma muta.
- Non.
Il forestiero mormorò orrore nel sentire il suo naso violentato dal fetore della carne marcia. Alla sua destra, una ragazza sulla veranda, nel velluto e nel raso, all’ombra dei suoi stessi capelli rossi, fermava i minuti stando immobile su una seggiola a dondolo.
- Cosa? – Le chiese, ma troppo tardi. C’era già lo scheletro, in fondo al viale. Piccola bestemmia scintillante, sepolta nel cinturone della pistola, cappello e bavaglio, stivali consunti. L’orco si gettò fuori dal locale ringhiando le parole, come si vomitano le sbronze. Annuì a quelle ossa e sparò fulmini imprecisi, schioccando le dita. Ma di ben altra abilità sono capaci gli uomini soli e sparano dritto, nel centro del cuore. Così l’uomo morto non si fece pregare e lasciò alla neve che prima o poi sarebbe venuta, un cadavere nuovo. Il fumo della canna, così sinuoso parlava di tutto quello che un’espressione d’un teschio non può dire. Lento, quello, arrivò al saloon, col giovane ospite che si ritrovò non più così giovane nel vederselo passare ad un palmo, così pieno di niente. Lo scheletro prese i capelli della ragazza e una commovente faccia putrefatta venne scoperta. Se la trascinò via ghermendola per quel lungo rame; i piedi di lei, che tracciavano l’assoluzione per la terra asciutta, smuovendola dalla sua ignavia, perdevano tessuti e vermi. Così il forestiero rimase in quel posto, per sempre, solo con il pensiero che spesso l’amore non somiglia all’amore.
Questa è la storia di Willie.
lunedì 28 giugno 2010
Non saprò cosa hai fatto, William
venerdì 11 giugno 2010
Tetrapiloaforistica #10: ULTERIORI riflessioni sull'Amore
talvolta, l'Amore è solo un apostrofo rosa
fra le parole "Succhia" e "Più forte"
Tetrapiloaforistica #9: Riflessioni sull'amore
credo proprio che dovremmo vivere insieme.
Sei la persona che odio di più al mondo. Dopo me
lunedì 11 gennaio 2010
Pilocatabasi 1: Pensavo fosse amore, invece era una Smart
Si annega con poco, nell’insicurezza. Personalmente, riesco a strozzarmi con un bicchiere. Figurarsi con l’oceano burrascoso che tende ad essere il resto della vita. Sicuramente, sarà capitato a tutti quelli che fra voi tengono nel portafoglio una patente, nella tasca le chiavi di un’automobile e nelle narici l’odore pieno di una città, di ritrovarsi impantanati nella ricerca di un parcheggio. La disperata e frustante ricerca di un misero rettangolo di spazio libero dove poter posare quel cavolo di ammasso di metallo su gomme, che ci scarrozza su e giù per i nostri affari. E tu sei li, che rallenti, a chilometri dal luogo dove in realtà saresti dovuto scendere, aguzzi la vista, cerchi, prendi misure, fai i conti con i punti della patente che ti rimangono, pensi già a che scusa poter usare con il vigile, guardi ogni marciapiede e le distese infinte davanti alle strisce pedonali con il fare di un maniaco in uno strip club. E poi, c’è sempre una Volvo grigia. E per quanto se ne dica, le Volvo grigie, sono sempre dispensatrici di speranza. Dietro una gigantesca ed ingombrante Volvo grigia, lo puoi vedere, se sei attento, attraverso i vetri posteriori della maestà svedese. Il posto auto. Splendido, vuoto, accogliente. E tu ti sbrighi, perché in cuor tuo sai che chi si ferma è perduto e che in quei dodici metri che ti separano da lui, tutto può accadere. Chiunque, lo vorrebbe, il tuo posto. Chiunque, vorrebbe stare al tuo posto. Acceleri, inveisci e lasci del battistrada fumante dietro di te, per prenderti ciò che ti spetta di diritto. Passi la Volvo grigia, inchiodi sterzando, come a dire “Guai a chi si avvicina, è mio”. E nel posto vuoto, ci trovi una Smart. Una piccola, invisibile, insignificante macchina da sedicenne, ma più costosa. Ti viene quasi da chiederti, se la Smart sia stata più veloce di te. Ed invece, ti rendi conto benissimo, che la Smart, li c’era sempre stata e che il tuo occhio, t’ha fregato un’altra volta.
E sono queste le cose che mi rendono insicuro. Insicuro, insoddisfatto. Non è che mi facciano paura, è che proprio mi fanno cagare addosso. Perché ovunque, può esserci una Smart, che tu non vedi, ma pure se non la vedi, sai che può esserci. E cominci a far fatica, a frizionare come un matto, per il tuo obbiettivo. Ti fai domande, cerchi risposte, usi cautela, che prima non avevi mai avuto. Sarà lei il posto per me? Staremo bene insieme, io ed il mio posto auto? Vorrei mai dei bambini dal mio posto auto?
E’ che le gioie, le gratti via con un attimo, le delusioni, un po’ meno. Si, sono delusioni vecchie, che appartengono ad altri posti auto con cui non è andata come avresti voluto, che ora sono lontane dai tuoi pneumatici, ma come si fa a dimenticare il dolore, considerando che i nervi stanno li a dire “se tocchi la lama, sanguini, cretino”?
Forse è solo la corsa, che ci rende attivi, felici. L’obbiettivo è cosa da poco. Questo mi fa dire l’insicurezza. Mi fa dire che è la cerca, la parte bella. Per questo oggi sono un po’ giù. Perché le Smart, mi fanno triste, pure se non ne vedo. E pure se il posto auto è li, io un po’ me la sto facendo sotto. Perché dopo tutta questa attesa, trovarci una Smart, sarebbe come scoprire che il Paradiso, è a mezza pensione.
Attese
Leggevo dell'amore, e dell'attesa, e mi sei tornata in mente. Pensavo a quanto ci abbiano riguardato, nei dieci anni che ci hanno visti camminare uno di fianco all'altra, l'amore e l'attesa. Di come ci siamo aspettati, pazientemente, anno dopo anno, vedendoci crescere, e di come, per impazienza, ci siamo fatti male.
Di come ci siamo incontrati per l'ultima volta, dopo anni, sotto la pioggia sottile di una notte autunnale; di come ci siamo guardati, coscienti entrambi di non avere più voglia di aspettare, di non avere, per una volta, più motivo di aspettare. Di come, mossi da un'istante di fretta, ci siamo fatti male ancora, per l'ultima volta.
Sai, mi sono ritrovato di nuovo ad attendere, ed è una sensazione strana, ora che non sei più tu la persona che aspetto; ma è una bella sensazione, lo sai, la conosci molto bene anche tu, e questa volta, credo, andrà meglio, ora che ho imparato ad aspettare.
domenica 3 gennaio 2010
E poi vi amo, veramente, in maniera viscerale
Che poi, in questo primo sabato della nuova decade, di cose ne ho capite un fottio.
Primo: io e lo stile di vita da straight edge non andremo mai d'accordo.
Secondo: anche se sono una gran persona, l'alcol migliora parecchio la situazione, sia per me che per gli altri.
Terzo: dopo tre decadi che calpesto lo stesso vostro pianeta posso ancora stupirmi ad infrangere i miei limiti, anche se la prossima volta devo riuscire a farlo senza supporti esterni.
Quarto: camminare nell'aria fredda dell'alba è ancora la sensazione più bella del mondo, e ancora non concilia il sonno, e se hai le gambe nervose di adrenalina potresti anche camminare per ore. Grazie a Dio ci sono post che aspettano di essere scritti che ti riportano a casa.
E poi vi amo, veramente, in maniera viscerale, a voi che mi accompagnate nei miei deliri, nelle mie serate, nella mia vita che per voi ha riniziato a scorrere potente, e che ora dormite. Quindi, per ora, anche se il sole mi inonda la stanza, buonanotte.
giovedì 31 dicembre 2009
Sbilanciandomi in un bilancio. Un anno di me. Duemilanove.
Sono qui, sull’uscio e tiro un sospiro, che, lo dico sottovoce, sa di ideali. A cavallo fra un giro ed un altro, pronto ad entrare nel prossimo vagone, mi soffermo, per un minuto che sia uno a vedere cosa mi sono lasciato alle spalle.
Quest’anno, è nato come quello prima e quello prima ancora. Con me schiacciato nel mezzo di una vita non mia. Tramortito dalla paura di uscire da quello che (ora me ne rendo malinconicamente conto) non era più un mio sentimento, da molto tempo. Con me, che non riuscivo a scappare da una ragazza che probabilmente non avevo mai amato e che miseramente non riusciva né poteva darmi nulla, non avendolo nemmeno per se. Con me, morto nel mio cantuccio ad aspettare che il giorno mi facesse compagnia nella fossa, perso come ero fra deliri ed attacchi di panico e fobie inspiegabili. E così è stato per sei mesi. Davvero crudeli, quegli ultimi rantoli. E poi, un giorno di maggio, tutto è cambiato. Lei mi ha lasciato. E mai cosa migliore sarebbe potuta accadere in vita mia. All’inizio, non capii il bene che mi stava facendo. Non percepii che mi stavo liberando di inutile zavorra. Ma è proprio vero che è maggio, il mese delle fioriture e dei colori. E ho cominciato a vederli di nuovo, uno ad uno. Amicizie di vecchia data, messe ingiustamente in un cassetto a prendere polvere, sono state rimesse al posto che loro spetta, fra i miei punti fermi. E persone che ho avuto modo di conoscere davvero dopo tanti anni, si sono rivelate le migliori con le quali io avessi mai potuto avere a che fare, semplicemente fantastiche. E poi quelle nuove, non son state da meno. E’ così, che ho ricominciato a sentire. La voglia di esserci, la voglia di scrivere e di scrivermi come in pirografia, su tutte le mie giornate. E la forza, quella appassita un tempo, di affrontare e lottare e superare ogni strafottutissima paura. Niente più attacchi di panico, nemmeno prendendo di petto quel monte insormontabile che era per me, viaggiare in aereo. E vedere gli ingranaggi che girano, osservarli e carezzarli. Soave. E cogliere con le mie stesse mani l’innamoramento, che pensavo fosse un sentimento che potesse appartenere solamente all’adolescenza. E invece è incredibile scoprire come tutto fosse sbagliato, fuori fuoco. Ora non lo è più. Ora il cambiamento, mi percuote costantemente, mi rende instabile, donandomi un brivido, se lo cavalco. E ora, lo cavalco, senza preoccuparmi troppo di tenermi stretto alla sella. Era così che vivevo, è così che sono tornato a vivere. Certo, invece di tre giorni, ci ho messo tre anni, per uscire dalla tomba. Ma cazzo se ne è valsa la pena. E Orsera, e Barcellona e le risate, le sigarette, le nottate, gli scazzi, le confessioni, i fiumi di alcolici. Tutto. Tutto quello che mi mancava. E’ un respiro che sa di ideali, perché, un tempo nella libertà ci credevo. Ed ora che libero non lo sono solo di nome, me ne riempio i polmoni.
Avrei dovuto scriverlo in maniera diversa, cesellando le parole, schivando la retorica, curando questa forma stentata. Ma non mi andava, perché è proprio così, che è stato questo cazzo di duemilanove. E questo non è un racconto, ma una confessione.
Un ultimo ringraziamento lo lancio ai miei amici, quelli veri, che sono pochi, intimi e davvero grandi. Siete i migliori, oltre agli svariati buffi che ho, vi debbo una vita.
E poi, grazie a Lei, che mi ha fatto crescere, facendomi tornare quello scemo diciassettenne che ero. Con gli occhi a cuoricino.
Ci vediamo fra qualche ora, sul prossimo giro di otto volante.
Con affetto, Alessandro
lunedì 21 dicembre 2009
Sodomocinesica 2: Notizie Dal(la) Fronte
- Ho una missione per te – urla il capitano di ventura - perlustra la cucina, soldato.
Lui tituba, si turba e tuba, con faccia da piccione, occhi sgranati.
- Perché io? Non ho fame!
- Ma io si, cazzo, vai e non lagnarti.
Il soldato, sa che non tornerà. Anche noi, lo sappiamo. Ma è una vittima sacrificabile, avendo lui la sola capacità di fare il caffè bruciato. Lo saluto, cappello al petto.
- Sei coraggioso, uomo, ora va.
Lui si volta verso di noi, per un ultimo, fugace saluto, mentre i suoi occhi pieni di lacrime scintillano alle luci della vetrinetta di super alcolici.
- Gente stronza come voi, non l’ho mai incontrata. – Queste sono le sue ultime parole di uomo coraggioso e pieno di sentimento per i suoi commilitoni.
Lo vediamo uscire dal bancone ed avviarsi con passo felpato verso la cucina.
Entra dalla porta e lo segue un silenzio di cinque minuti buoni. Poi il grido. Capiamo che è andato.
Uno di noi ha una crisi isterica e comincia a lamentarsi, sottovoce:
- Non sarei mai dovuto venire, non sarei mai dovuto venire!
- Neanche noi, ci aspettavamo di incontrarle. Ma ora è troppo tardi. Siamo qui e dobbiamo ballare. Lo so, ci mangeranno vivi. Sono più svelte, più furbe e meglio armate. Ma noi siamo in superiorità numerica. – gli spiega il capitano di ventura.
- A dire il vero, capitano, ora che ci siamo giocati lui, siamo in numero pari. Forse la sua voglia di supplì, ci ha un poco penalizzati.
Il capitano, che sa fiutare un ammutinamento, tira una bustina di zucchero di canna in testa al tenente. La rivolta, è sedata. Per ora. Sa che è un gesto forte, ma se non avesse agito così, ci saremmo ritrovati a scannarci fra di noi.
Poi, le risate sguaiate, ci gelano l’anima. Eccole, sono tornate all’assalto. Le donne. Hanno invaso il nostro territorio alcolico, ci hanno sparato sorrisi e battute e noi, ora, battiamo in ritirata. Basta uno sguardo e tutti sanno esattamente cosa fare: il segno della croce. Per il resto, gettiamo le speranze alle spalle, e ci apprestiamo, ad essere agnelli nella bocca del lupo.
Schivo un discorso inconcludente, che si infila nel vetro della specchiera. Vedo con orrore, che il capitano, non è altrettanto fortunato. Lo vedo rantolare a terra, innamorato perso. Ora sono io al comando di questa Armata Brancaleone. Si sono portate appresso il cadavere del soldato partito per la cucina. Anche lui, è cotto. Inservibile alla causa. Con un atto eroico, prendo per la collottola i due superstiti e li metto a versare da bere. Se questa è la fine, facciamo che almeno non sia da lucidi. La seconda carica è devastante. Non faccio in tempo a voltarmi, che una risata esplosiva e senza senso, colpisce il tenente. Anche lui, è andato, senza ritorno. Con l’ultimo barlume di coscienza, mi stringe il bavero della camicia e mi sussurra:
- Salutami il cane.
Decido di non dirgli che l’ho investito parcheggiando, stamattina. Siamo solo in due. Guardo il mio sottoposto negli occhi.
- Salviamoci le chiappe, il terreno è perduto.
Ed optiamo per una fuga strategica. Ci muoviamo velocemente, tenendoci il berretto con la testa mentre sopra di noi sibilano discorsi donneschi riguardo borsette e maglioni.
E finalmente siamo fuori.
- Cosa ne sarà di noi, ora?
Rispondo con un silenzio eloquente. Poi rammento:
- Cazzo, le chiavi ce l’ho dentro!
Lo invito, senza troppa educazione, ad una missione suicida, per recuperarmi le chiavi. Forse sono andate tutte al bagno, potrebbe pure salvarsi. Ma a chi cerco di darla a bere?
Va, lui, stoicamente. Aspetto. E aspetto. E aspetto. Perdo le speranze, sto per infilarmi dentro, per non sopravvivere da solo, quando lo vedo spuntare, viso sereno e chiavi alla mano.
- Com’è andata, soldato?
- Capitano, calma piatta sul fronte occipitale.
Come diceva l’antico motto di Lao Tse, il fornaio cinese sotto casa mia: “L’amore, è come un tricipite.”
E prima o poi, devo chiedergli che cazzo significhi.