mercoledì 16 giugno 2010
Pugni
Sperando che rispolverarlo sia di buon auspicio per l'estate che viene, è un piacere offrirvi...
PUGNI
un racconto di
Danilo Cipollini
a B.
Spogliatoio non è solo un sostantivo singolare maschile. E’ un sostantivo singolare maschio. E’ come Rasoio, oppure Coltello, che ne so. Giornale, o Teatro, non fanno lo stesso effetto. Quelli sono solo sostantivi maschili, semplici, pura distinzione di Genere.
Spogliatoio, invece... Spogliatoio è Uomo, non solo Maschio, porta con se’ immediati ricordi di odore aspro di sudore, e candeggina, e dopobarba da due soldi. Porta idee di muri e macchie gialle, di orinatoi, di asciugamani umidi.
Sauna, invece... beh Sauna è femminile e femmina. Calda, umida e avvolgente...più Femmina d’una sauna non c’è davvero niente.
Dalla sauna sfilo un asciugamano che ci ho lasciato dentro qualche minuto e caldo e bagnato me lo appoggio sul collo per rilassare i muscoli. Poi mi siedo sulla panca di legno, i gomiti poggiati sulle ginocchia, lo sguardo fisso verso il pavimento bianco chiazzato, e resto in silenzio in questo spogliatoio mascolino e asettico a lasciare che il sudore mi scorra addosso. Sento le gocce scivolare dalle tempie e scorrere verso il naso, rigare gli zigomi, fermarsi a giocare qualche secondo sulla punta del naso e poi cadere a terra. Nel silenzio che c’è, ogni goccia che cade sembra un’esplosione.
Mi concedo un quarto d’ora di tranquillità ogni volta che devo salire sul ring. Non che siano grandi incontri, i miei... non sono un pugile professionista. Sono poco più che allenamenti con qualche amico. I pugni, però, sono sempre veri. In uno sport come la boxe il concetto di allenamento ha una valenza relativa... quando giochi su un terreno le cui regole sono distruggere l’essere umano che c’è davanti a noi, non c’è modo di edulcorare la realtà. Non puoi chiedere a un pugno di non stenderti, o di non farti male.
L’orologio segna le 22, è ora di andare di là. Stendo la mano lentamente alla mia destra e afferro le fasce per prepararmi a salire sul ring.
Di tutti gli strumenti che la boxe ti costringe a frequentare, le fasce sono senza dubbio le mie preferite.
Due metri e mezzo di poliestere e cotone, con un anello di stoffa da un lato e un cinturino di velcro dall’altro.
La fascia rende un pugno duro come un sasso. Protegge la mano, stringendo le nocche per evitare che si allarghino e indurendo il polso, evitando che si pieghi e subisca sforzi inopportuni e traumi conseguenti.. Al tempo stesso, comprime e stringe ossa e carne in un unico cono rigido, rendendo un pugno uno strumento perfetto.
Ma non è solo perchè sono utli che mi piacciono... Ci vedo dentro qualcosa di sacro, un retaggio del passato. Gli antichi sacerdoti greci indossavano fasce prima di officiare i riti per gli Dei. Quelle bende venivano conservate e difese anche con le armi, se necessario. Era da quelle fasce che quegli uomini sacri prendevano la loro forza spirituale.
Su un altare ben più profano celebro il mio, di sacrificio.
Comincio così il mio rito pagano, afferro la prima fascia, fisso l’anello alla base del dito medio e inizio a farla girare. Tre giri ben stretti intorno alle nocche, poi scendo gradualmente e inisto sul polso,
Tredici giri e la mano è pronta. Altri tredici, e sono pronto ad andare.
Le mani si fanno compatte, e le senti appesantirsi, e contemporaneamente le senti come se fossero invicibili.
Prendo i guantoni, li metterò solo all’ultimo momento.
Mi alzo e cammino veloce fuori dallo spogliatoio. Come al rallentatore spingo lo sguardo fuori dalla porta mentre la apro. La luce del corridoio mi cattura e non penso più a niente.
Dal momento stesso in cui sono fuori di qui, è già boxe.
Quattro ore dopo, sdraiato nel mio letto, fisso il soffitto respirando piano. La luce filtra dalle persiane semichiuse, e illumina di strisce tenui tutta la stanza, rendendo il nostro mondo zebrato. Sento caldo sulla spalla, su cui scendono i tuoi riccioli biondi, ma è una splendida sensazione. La tua testa ha trovato un appoggio comodo fra spalla e petto, e senza guardarti posso sentire il tuo corpo muoversi al mio fianco. Sollevi una mano con un gesto lento, e bellissimo, e la porti sul mio naso un po’ ammaccato dall’incontro di stasera. “A lui è andata peggio”, ti dico. Sorrido piano e tu ti giri a guardarmi. Mi baci per impedirmi di dire altre cose fuori luogo. E io sorrido un po’ più forte, perchè è proprio questo che mi piace, di te.
Lascio penzolare la mano sinistra fuori dal letto finchè non artiglio la scatola dei sigari e l’accendino. Accendo un mozzicone di Toscano – quella di fumare a letto è una pessima abitudine che ho preso da poco – e soffoco un colpetto di tosse quando la prima boccata di sigaro mi secca la gola come se fossi in pieno deserto. La tua mano mi scorre sul petto e poi inizia a scendere verso l’addome. All’ombelico si ferma e torna su, con un movimento circolare, risalendo dall’altra parte del busto, e ricominciando. Una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, tredici volte.
Ed è lì che finalmente è tutto chiaro.
Non credo troppo nel destino e ho tanta fantasia. Per questo ho capito che tu sei le fasce della mia vita. Come la fascia impedisce al pugno di farsi male e lo rende più forte, tu stai facendo la stessa cosa col mio cuore. Quelle tredici carezze mi hanno fatto capire che si, è proprio così.
Chiudo gli occhi e spengo il sigaro in un bicchiere. Sfrigola un po’ a contatto con l’acqua, è il rumore di un istante ma nel silenzio lo si sente bene.
Non ti guardo e mi chiedo che rumore farà un cuore che diventa più forte.
venerdì 28 maggio 2010
Tra Viale Zara e Marrakech
di Danilo Cipollini
“Immagina Roma come un buco di culo, con il Raccordo Anulare a fargli da cintura, e dentro sei milioni di minuscoli cazzi che si dibattono per sfondarlo.
Milano pensala come un naso imbiancato di coca che tira su rumorosamente e si gode le ultime botte, Torino come il cervello operaio e buio di quel naso, strafatto di quel che Milano tira, messo a mollo nella nebbia.
Genova e Venezia sono occhi blu mare, con le pupille ristrette, che guardano fisso verso sud, verso Firenze, cuore pigro di questa nazione.
Napoli è un pene, mollemente adagiato su un fianco, senza spunti di vitalità, senza alcuna eiaculazione - tolte quelle che offre il Vesuvio.
Da lì in giù, il resto dell’Italia sono solo gambe. Gambe da donna, gambe da puttana, bellissime da guardare ma sostanzialmente inutili. Un corpo vive bene anche senza gambe. Lo sanno tutti.”
Diego rilegge quello che ha scritto. Non è male, è un buon inizio.
Pure i ragazzi della sezione lo chiamano “lo scrittore”, perché lui è quello che scrive sempre gli articoli che mandano al giornale.
Giornale… Giornaletto, ecco. “Voce Padana”. Un paio di centinaia di copie.
Però s’è fatto un po’ di nome, articolo dopo articolo.
Cristo quant’è tardi. Le nove. Qua in Padania, alle 9 si è già mangiato da oltre due ore.
Meno male che a casa sua si mangia tardi, di solito.
Diego si alza e raccoglie i fogli. Li infila nello zaino e spegne tutte le luci.
Due mandate di chiave e via, fuori, in strada.
Diego esce dalla sezione della lega nord di Biassono.
Il motorino fila veloce per le strade. Fende piazza Italia già deserta, tutta la brava gente lombarda al momento è in casa davanti alla tv. Gente onesta, gente generosa, che lavora duro.
Gente orgogliosa.
E che rende Diego orgoglioso di farne parte.
Diego ferma il motorino dietro un angolo tranquillo. Si tiene il casco in testa. Dallo zaino sfila una bomboletta spray. Verde, verde Padania. Inizia a camminare, senza fretta. Fa una cinquantina di metri. Riconosce un muro giallino e si ferma. E’ casa del suo amico Giuseppe,.
Peppe.
Peppe è nato a Catania. E’ un terrone. E’ venuto a nord coi genitori quando era piccolo, alle elementari stava in classe con Diego. Poi, si son persi di vita. Ha appena rilevato un bar, il bar che era di un onesto Padano… non va bene. Non va per niente bene. Quindi quelli della sezione di Diego hanno deciso di dargli un segnale. Per fargli capire che proprio non ci siamo.
E lo deve fare Diego.
Quasi gli dispiace. Lo conosce, da ragazzini stavano al banco insieme. Ma lo dice anche Umberto, il Senatùr “Chi vuole sposare la Lega poi deve seguire gli ordini”.
La mano guida il getto di spray sul muro. Poche parole costellate di un ottimo dialetto lombardo. Un invito esplicito a ripercorrere indietro la strada che lo riporta in Sicilia.
Diego corre.
Torna indietro al motorino, salta in sella, schizza via.
Il cuore pompa.
Diego accelera.
Diego.
Ogni volta che arriva davanti casa sente una fitta allo stomaco.
E’ sempre così. E’ sempre peggio.
Pensa ai suoi 19 anni, ai progetti che lo portano lontano da casa. Quanto ci vorrà ancora? Un anno? Due? Non importa. “Tegn dur, mai molàr”. Così si dice, da queste parti. Tieni duro, mai mollare.
E se lo ripete, mentre sale le scale.
Tieni duro, mai mollare.
Mentre cerca le chiavi
Tieni duro, mai mollare.
Mentre apre la porta.
Tieni duro, ma... ma…mma. Mamma.
“Ciao, mamma”.
La signora corpulenta si alza dal divano con agilità insospettabile e spegne la tv.
“UEEEE!! DIEGHI’!! Sì tturnate?? Bello a mammà! E come è andata, eh? Dillo, dillo a mammà! Tutto bbuono?”.
Diego Armando Esposito sospira.
La sua famiglia proprio non la regge più.
“Si mammà, andò tutt’bbuono”.
“Mi fa piacere assai. Vieni in cucina, che mammà ti ha fatto la frittata di pasta …”.
E Diego si consola un po’ pensando che almeno, la frittata di pasta alla polenta gli rompe il culo.
martedì 4 maggio 2010
Coma da suggerimento: Ho visto Stella cadere
Enjoy.
Ho visto Stella cadere.
di Danilo Cipollini
Se ci fosse un interruttore che ti spegne, giuro, lo userei.
Bastasse premere un bottone per dimenticare e ricominciare da capo, non ci penserei un secondo.
Non c'è metodo per sollevare ciò che muore, è vero, ma ho scoperto che anche uccidere ciò che ancora vive è tutto fuorché facile.
Vallo a spiegare a un cacciatore. Vallo a spiegare a un macellaio, o a un assassino.
Ma soprattutto, vallo a spiegare alle vittime.
Mentre tutto questo mi viene addosso, nonostante tutto questo che mi corre addosso, tu mi chiedi di aspettare.
Sono seduto a Corso Buenos Aires, nella tua Milano, davanti a me passa una modella che fuma elegantemente una sigaretta e, svogliata, occhieggia le vetrine.
Andrea G. Pinketts, nei suoi libri, ne ha descritte tante delle modelle di Corso Buenos Aires, ma tutte mute. Tutte oggetti, Veneri di nicotina e fard, abili per lo più al piacere dell'uomo o da tenere buone per l'alcolismo.
Io oggi vorrei dar loro la possibilità d'un riscatto, farle finalmente parlare, Cristo, che qualcosa avranno pure da dire.
Così prendo Ingrid (questo è il nome che le ho dato) e di lei, più che il culo nudo, immaginerò la mente.
Torniamo allora dalla nostra Ingrid, che cammina elegante ma non troppo, sui tacchi aguzzi come pugnali, le gambe lunghe dalla pelle chiara che filano, strette, sul marciapiede coperto di mozziconi, il vestito nero che svolazza poco intorno alle ginocchia nude.
Un tacco si impunta e l'andatura quasi elegante si scompagina un secondo, Ingrid piega sulla destra, sembra quasi che cada, magnifica quercia tradita da un minuscolo taglialegna, ma si riprende, tiene duro spingendo sui lombi allenati e nello spazio di due metri riprende postura e eleganza.
Unico segno tangibile della quasi-caduta, fra le sue dita è scomparsa la sigaretta, che ora rotola sul selciato lasciandosi dietro piccole colonne di fumo. Sibila “Merda”, con un forte accento del nord Europa (Norvegia, Danimarca forse, ma più probabilmente Svezia), riavvia con la mano il fatale caschetto di capelli rossi e fulmina in basso con lo sguardo la traditrice di carta e tabacco che lentamente muore a terra, nell'indifferenza generale.
Lentamente muore anche Ingrid, muore dentro da un mese, da quando Stella non c’è più.
Stella che le illuminava il cuore, Stella modella, anche lei, che vive a Roma in una casa dalla quale, certi giorni, si sente l’odore del mare. Stella sorella, stesse esperienze, stessa sorte, stessi timori, stessi incubi di plastica. Stella gemella, quasi, per quanto forte, e bello, era il loro amore. Stella che era così diversa da lei, così razionale, così calcolata, Stella che amava in piccole cose e rifiutava i gesti teatrali. Stella che un giorno ha detto “Qui non c’è più nulla che possa darti. Vorrei che non ci vedessimo più.” ed è partita, sparita, Stella che è caduta, confus, dice, e dice che ora no, ora si deve ricostruire, ora non si può più.
Ingrid alza gli occhi e mi guarda. Non guarda verso me, guarda Me. Non servono parole perchè viviamo nello stesso dolore, un mondo a parte in cui tutti gli altri ci sono ma sono ovattati, lontani. Si avvicina con lo sguardo più vero che mi riesce di immaginarle in faccia e accendendo un’altra sigaretta mi dice solo “ Ho visto Stella cadere”. Poi si siede accanto a me sulla panchina di legno e per un po’ stiamo zitti. Sigaretta lei, sigaro Toscano io. Zitti, che a parlare ci pensa già Milano. Passano un paio di minuti quando si volta e mi fa “Piacere, Ingrid”. Non le regalo il mio nome ma tiro un’altra boccata e le chiedo “Ha fatto male?”, come se non conoscessi già la risposta.
“Lo sai che fa male”.
“Già, ne ho una vaga idea”. Sorrido.
“Io ho idea che tu sei qui per lei”, mi fa.
“No..cioè si... cioè Ingrid non lo so, davvero. E’..assurdo, è incredibile come la confusione di un altra persona... poi può diventare la tua.”.
Segue silenzio imbarazzato e amaro che ci lascia il tempo per fumare il fumabile.
Quando la punta del Toscano è così corta che il calore mi brucia le labbra a ogni tiro, lo butto.
Devo essere proprio conciato male se una bella donna in crisi per amore mi abborda in cerca di conforto e non per un amplesso che le riabiliti un paio d’ore.
E all’unisono, all’improvviso, gli occhi fissi sull’asfalto, diciamo “Se ci fosse un interruttore...”. E ci fermiamo, sorridendo per quel pensiero diviso a metà, le faccio segno di continuare lei, anche se questa frase la conosco già. Spegne lentamente il sorriso e dopo un istante “Se ci fosse un interruttore”, ripete, “per spegnere i pensieri, lo avrei premuto un mese fa.”.
Stràli di fritto vengono scoccati dal Mc Donald’s qui davanti, ora che il sigaro non mi protegge più con la sua cortina densa di fumo arrivano tutti a segno.
Ingrid mi chiede l’età e quando gliela dico scuote la testa e non ci crede. Mi sfida alla prova e le passo la carta d’identità per difendere quel che ho detto, manco fosse un carabiniere. E in effetti è furba, troppo furba per essere un carabiniere, perchè con questa mossa ha scoperto non solo l’età ma anche il mio nome.
“Sembri più grande, Danilo... Sei invecchiato in fretta”. Colpa della boxe e di una donna, dico io.
“Ognuno ha la sua Stella da guardare cadere”, rincaro la dose.
Stringe i pugni e si alza di scatto, fa per andarsene, si volta dopo un paio dei suoi lunghi passi eleganti e mi dice “L’assurdo è che dopo averla vista cadere, l’unico desiderio che riusciamo a esprimere è che torni presto al proprio posto”.
Poi si volta e se ne va, lasciando scivolare dalla borsa quello che sembra un biglietto da visita, guardandolo mentre plana quel tanto che basta a farmi capire che è un caso.
Si allontana a passi veloci. Splendida.
Guardo il biglietto dalla panchina e non lo raccolgo. Vado via, accendendo un altro Toscano.
Dopo aver visto cadere una Stella, chi guarderebbe cadere un biglietto?
venerdì 30 aprile 2010
La Padronanza (dei miei Enzimi)
Perchè si bacia sempre, sempre, la mano che ruppe il tuo naso.
Signori e signori,
vi offro...
La Padronanza (dei miei Enzimi).
Gli Uomini sono cuori che sparano arterie.
Gli Uomini sono cuori e quello è il loro posto nel mondo.
Gli Uomini sono cuori, e questa è una condanna.
Condanna, dico, perché un cuore non può scegliere di fermarsi.
Un occhio … può chiudersi, e riaprirsi quando si sarà riposato un po’.
Una mano può smettere di accarezzare un bel paio di gambe, e riprendere dopo un po’. O spostarsi, piano piano, a sfiorare altre fortune.
Persino i polmoni possono, per qualche tempo, contrarsi e smettere di buttare dentro aria.
Un cuore no.
Un cuore tira dritto sulla sua strada e sia quel che sia, non può smettere di battere e così come lui gli Uomini non possono smettere di muoversi (noi compiamo in media 1328 movimenti, ogni notte, anche durante il sonno), un Uomo anche se non vuole non trova mai vero riposo, e continuerà a bere mangiare fumare parlare sorridere scommettere credere fare l’amore. Pensare. Un Uomo penserà e i suoi pensieri saranno come sangue che affiderà alle Parole, che dell’Uomo sono arterie, vene, perché racchiudano in se quel pensiero e lo trasportino lontano.
Un Uomo è un cuore e questa è una maledizione che rende più lieve osservando l’incanto del meccanismo intorno a se. Attribuisce a ognuna delle persone che gli ruotano attorno un ruolo, la sua molecola, la sua funzione, e resta a guardarli mentre si incastrano a meraviglia permettendo a quel grande corpo umano che è la Sua realtà – una realtà personalissima di cui è il cuore, il motore, lui e lui solo – di funzionare a pieno regime.
I miei anticorpi, puoi chiamarli Mamma e Papà.
Ho una nonna che è la mia milza.
Un fratello che è polmoni.
Fegato, piastrine e ormoni sono delegati agli amici.
Il cervello l’ho affidato ai miei libri e a qualche canzone.
Gli enzimi sei tu.
E io sballo per gli enzimi.
Gli enzimi non se li caga mai nessuno. Quando pensiamo a noi stessi, al nostro corpo, a come funziona … Pensiamo al cuore. Alla lingua. Al fegato, al sesso, al sangue. E trascuriamo sempre gli enzimi.
Dì, ma lo sai a che serve un enzima?
Un enzima è un acceleratore.
Prende i processi che avvengono all’interno del nostro corpo, le centinaia di migliaia di reazioni al secondo che ci permettono di vivere, e li rende più veloci. Milioni di volte più veloci.
Immagina: la Pizza. Quando impasti la pizza, poi devi lasciarla a riposo, a lievitare. Ecco … è un enzima a fare questo. E quel miracolo che si compie in un paio d’ore, senza l’enzima richiederebbe mesi.
Moltiplica lo stesso miracolo per centomila e sbattilo dentro al tuo corpo. E’ quel che sta avvenendo proprio ora.
C’è da restare senza fiato, non è così? E non è finita, reggiti forte che adesso arriva il bello.
La cosa migliore è che, nel fare questo, l’enzima NON SI CONSUMA.
La capisci la grandezza? Non c’è sacrificio, non c’è perdita d’identità, l’enzima resta quello che è. Si lega alle sostanze per il tempo che serve, la fa reagire, la trasforma, e poi si stacca. E torno indipendente. Autonomo. Sicuro di se.
E’ così che sei il mio enzima. Quando mi lego a te, quando sto con te, tutto il mondo si velocizza. Le persone, le parole, i miei pensieri, tutto ruota intorno a me, fuori controllo, in un caos apparente che mi gonfia, mi fa reagire, e Dio solo sa quanto mi rende vivo.
Poi ti stacchi, torni tu, e tutto riprende com’è. Mi lascia il tempo di riprendermi, di pensarci su, mi lascia respirare prima che torni di nuovo tu a velocizzarmi l’anima.
Sei tu che tieni, fra le mani, la padronanza dei miei Enzimi.
Io non lo so com’è, l’Amore. Non lo so come non lo sa nessun uomo, perché a noi non è data la possibilità di conoscerlo. Possiamo solo studiarne una nostra versione, adattarlo a noi, ed essere poi condannati a cercarlo per il resto della nostra vita.
Possiamo inventare una cosa e chiamarla Amore, e provare a viverla cercando in lei di essere felici. Che poi, in fondo, è quel che cerchiamo tutti, non si fa altro nella vita se non provare a essere felici, con ogni mezzo possibile.
E ci ho provato, tante volte, ed ho trovato tante cose diverse, e tutte le ho chiamate Amore, e tutte o quasi poi sono finite perché vivendole, sperimentandole, lasciando che mi emozionassero, si consumavano.
E forse è questa la tua grandezza. Il tuo non consumarti, il tuo restare tu, mi fa sperare che stavolta possa essere diverso. Mi fa pensare che lo sbaglio sia stato cercare l’Amore nel cuore, e quindi dentro di me, e non averlo cercato negli Enzimi.
E’ negli Enzimi che lo trovo oggi e io ti prego … continua a rendermi la vita una corsa. Te ne prego.
Fumo piano mentre mi scorri nelle vene.
giovedì 18 marzo 2010
La Ballata della Testa Rasata
(Breve cronistoria della mia capigliatura)
di Danilo Cipollini
Le potenti forze del Femminismo, dell’Emancipazione, del Progresso e della tendenza al Nido IKEA, combinandosi, avrebbero potuto portare le Donne a traguardi inaspettati. Meravigliose rivoluzioni. Un progressivo maturare della specie umana, anche.
Invece,tutto quel che hanno prodotto, è uno spostamento di qualche metro.
Non più regina dei fornelli, della cucina, non più mater familiae, la donna è adesso in completa identità e simbiosi col suo bagno. Anziché uscire dalle mura domestiche e invadere un mondo fin ora troppo a immagine e somiglianza dell’Uomo, le donne si sono accontentate di imitare gli uomini in pubblico, salvo poi ritirarsi, a sera, nel loro regno dorato, chiudere a chiave la porta del bagno, e lì giocare ancora a impersonare Principesse.
Diciamocelo a chiare lettere: il vecchio adagio “chi dice donna dice danno” ormai è obsoleto, superato, inattuale. Oggidì, chi dice donna, dice Bagno.
Innanzi tutto, uno specchio con cui confidarsi. L’antenato di internet, una “finestra” dei sogni (il nome windows vi dice niente?).
E, anche in bagno, Tecnologia.
Ma la tecnologia più amica che una donna sia in grado di immaginare: phon, piastra, arricciatore, e così via.
Una vasca da riempire di acqua bollente in cui potersi lasciar andare completamente al riparo dalle forze del male che imperversano nel maschilista mondo esterno. Un autentico Castello in miniatura per le moderne Principesse del Sanitario.
E soprattutto, come in ogni Reame che si rispetti, c’è anche una Bottega della Strega: creme, cremine, preparati, lozioni esfolianti per uno scrub delicato e che lasciano la pelle inebriata di un dolcissimo aroma di rosmarino e papaya.
Shampoo ai frutti di bosco e pachino. Impacco rigenerante allo sperma di mulo e fiordaliso.
Chi dice donna, decisamente, dice Bagno.
Ecco cosa la globalizzazione non riuscirà mai a modificare: il diverso approccio degli Uomini e delle Donne al Bagno.
I momenti che lo legano al bagno sono per un uomo pochi e ben distinti: anzitutto, la grande e soddisfacente cagata mattutina, vero caposaldo di ogni essere umano di sesso maschile.
Poi, la doccia, sbrigativa e ruvida, utilizzando come detergente una qualsiasi pappetta presa a caso fra quelle delle sua compagna (o madre, per l’esemplare maschio in giovane età), schierate in una fila ordinatissima sul bordo della vasca.
In terzo luogo, la rasatura – anche se qui, a onor del vero, dobbiamo dire che alcuni punti di contatto si stanno sviluppando.
Si mormora che alcuni uomini abbiano tradito, stiano passando al nemico, e abbandonata l’usanza tipicamente Unna di radersi quasi a secco, a mò di “spada-contro-guancia”, stiano iniziando a concedersi il lusso di cremine ammorbidenti, rassodanti e – udite udite – addirittura ANTIRUGHE.
I più fortunati aggiungono, a queste poche significative azioni, quella che in gergo si chiama: “Boccia”.
La boccia è una scelta: o tua, o della natura.
Chi i capelli li perde, alla boccia deve ricorrere per forza, salvo trincerarsi in quella aberrazione universalmente conosciuta col nome in codice di “riporto”.
In questo caso, è la natura che sceglie per te.
Diversamente, alla boccia puoi abdicare. Puoi rivolgertici, con dolcezza, quasi con fiducia.
Prendi me.
Sono nato pieno di capelli. Un piccolo orango nel freddo novembrino. E i primi tentativi parentali di pettinatura della mia testolina già rivelarono una atroce verità: vertigini.
Due,solo due, ma grosse. Enormi. Una davanti, leggermente sulla sinistra. E una dietro a destra (invidiabile senso della geometria, da parte della Provvidenza).
Queste vertigini mi costrinsero, dalla più tenera età, al cosiddetto “muretto”. Ovvero capelli di media lunghezza, sostanzialmente pettinati bassi, in avanti, e che poi si alzavano, in una specie di ventaglio, davanti. Una piccola coroncina nera che mi accompagnò dai 4 ai 14 anni.
Per me, la riga in mezzo era un’astrazione impossibile. I boccoli ricci che poi contraddistinsero mio fratello, una impensabile fantasia. Capelli neri, spessi, dritti, e ‘ste due vertigini maledette, una davanti e una dietro.
E quindi, muretto.
Ci furono timidi tentativi di crescita tricologica ulteriore, ma vennero sedati al confine delle orecchie. C’erano delle colonne d’Ercole all’altezza delle orecchie che gridavano “Non plus ultra”, pena la vertigine.
Tutto questo, dicevamo, fino ai quattordici anni.
Fu allora che irruppe nella mia vita in maniera improvvida una cosina chiamata rock ‘n’ roll.
Immaginate un quattordicenne grassottello. Cresciuto a pane e Claudio Baglioni da una famiglia amorevole. Renato Zero, introdotto di nascosto dal mio zio paterno, rappresentava il massimo della trasgressione. Nessuna crisi familiare, nemmeno qualche discussione.
Ottimi voti a scuola.
Un bel quartiere, periferico ma carino, curato, pieno di verde. Dove si può giocare per strada, per dirti. Senza rischiare nulla.
Lettore incallito di qualsiasi libro, qualsiasi, giuro, inclusi “I Nibelunghi”. A quattordici anni! “L’anello dei Nibelunghi”, una palla mostruosa, un libro che dovrebbe essere vietato a persone sotto i sessantacinque!
La Divina Commedia l’avevo letta a undici.
Talmente minchione da non giocare nemmeno a calcio. Facevo JUDO.
Judo, cioè le arti marziali viste da Madre Teresa di Calcutta. L’unica arte marziale in cui NON ci si fa male, mai.
E soprattutto, immaginatevi i suoi capelli “col muretto”.
Ecco, a questo punto prendete il suddetto quattordicenne e speditelo al liceo classico. Abbastanza vicino al suo quartiere dorato, ma comunque fuori. A questo punto, mettetelo a bagno nel suo ’68 personale.
Un casino. Davvero.
Ora, io all’epoca non fumavo. Mai fatto nemmeno un tiro. E, per di più, l’odore di sigaretta mi dava fastidio. Quello della canna, non ne parliamo proprio.
Quindi, quelle erano eliminate a priori.
Cosa rimaneva, del mio ’68 personale?
Sesso, e rock ‘n’roll. Furono gli anni del primo pompino. I primi approcci all’altro sesso. E, soprattutto, iniziai a cantare con un gruppo.
Probabilmente avrei voluto anche suonare qualcosa, che ne so, la chitarra. Ma la Natura m’ha creato provvisto di mano “pesante”, utile quando si tratta di riportare la pace sulla terra mediante una sonora dose di mazzate, ma inutilizzabile su qualsivoglia strumento. Però, per contrappasso, m’ha regalato una voce decente. E allora, giù a cantare.
Ed era tutto un fiorire di Led Zeppelin, di Sex Pistols, di Deep Purple. Era come sentire la vita riallinearsi. C’era solo UNA cosa che stonava: i capelli col muretto.
Così, prendo il coraggio a due mani e scelgo: diventeranno lunghi.
Arriva ferragosto. Come da tradizione, si va a casa di nonno, in campagna. Non lo vedevo da un po’, qualche mese. Appaio nel sole di agosto con il giacchetto di pelle e i capelli già lunghi fino alle spalle.
E mio nonno trasale. Ma tace.
Aspetta. Infido.
A tavola, a pranzo, davanti a tutti, la butta lì. “Cos’è” mi fa “Hai litigato col barbiere?”. E sorride.
E io, coglione, ingenuo: “ No Nonno, pensavo di farli crescere”. E lui si mette a ridere. “Dai, sul serio, quando li tagli?”.
Io ERO serio. Glielo spiego.
La risposta è di quelle da scrivere a fuoco negli annali.
“Solo i Drogati e i Papponi hanno i capelli lunghi”.
Che spettacolo. Eccolo il mio ’68 personale. Ci voleva un po’ di scontro generazionale.
A dirla tutta, a me i capelli lunghi piacevano ma già mi stavano un po’ scocciando. Scomodissimi.
Ma, dopo quel Ferragosto, quei capelli erano trascesi. Erano diventati metafisica. Erano un Simbolo. Li lasciai crescere per 4 anni. Per un periodo, mi arrivavano quasi al culo.
Continuavo a non farmi le canne, iniziavo a sbronzarmi, avevo conosciuto decisamente meglio l’altro sesso, e cantavo, cantavo, cantavo. Studiare non se ne parlava. Alla fine, me la cavavo sempre. I voti non erano più sbalorditivi, ma comunque buoni. Ed era questa la cosa che “il Nemico”, il mondo degli adulti (ignaro del mio ’68), non mandava giù.
Non era possibile, sfuggiva alle loro logiche. Uno che faceva quello che facevo io doveva PER FORZA andare male a scuola.
Questo divideva i miei professori in due grandi schiere: quelli che mi riconoscevano una certa genialità, e quindi mi amavano. E quelli, la maggioranza, che detestava me, il mio ’68 privato e la mia saccenza. L’arroganza di riuscire a non andare male pur sfuggendo alle loro regole. Alle loro ricette.
Fu con questo clima che affrontai la maturità.
Il pomeriggio prima dell’orale, andai dal barbiere (che non mi vedeva da anni e stentò a riconoscermi) e dissi solo: Taglia.
Fu la mia prima “boccia”. L’unica che in vita mia abbia tosato un barbiere. E non a caso, doveva essere lui. Non avrei sopportato che un amico uccidesse i miei amati capelli. Doveva farlo un estraneo.
Ventotto giugno, entro in aula per l’orale della maturità. La prof di Geografia Astronomica, nonché mio peggior nemico, napoletanissima, temutissima, mi guarda e fa: “Cipollini: finalmente con dei capelli da bravo ragazzo!”.
Ho sorriso e mi sono seduto mormorando: “Cominciamo”.
Gli annali del mio liceo tutt’ora ricordano che la votazione che seguì il mio esame fu la più problematica degli ultimi vent’anni. A un certo punto, la professoressa di filosofia, di cui non voglio fare il nome ma comunque si chiamava Maddalena Pinto e io la saluto, afferrò un banco e tentò con quello di percuotere una collega. Non si riuscivano a accordare sul voto. Si passava dal 98 (il 100 per me era irraggiungibile, ringraziando la bastardaggine del mio Peggior Nemico che aveva fatto bene i suoi conti), al 72. Un margine di quasi 30 punti. Surreale.
Ne uscii con 90, grazie anche alla quasi rissa.
Novanta centesimi alla maturità classica e i capelli corti.
Ma non durò. Non poteva durare.
Provai alcuni pietosi ibridi, mezze lunghezze. Una volta arrivai all’umiliazione di andare dal barbiere con una foto presa da una rivista. Ridicolo.
Questa tiritera durò poco più di un anno. Poi, il richiamo della foresta.
Tornai al lungo. Per anni e anni.
L’ultima immagine di me coi capelli lunghi è un’estate di sole greco, io e tre amici strettissimi, in sella a due motorini scassatissimi. Il mare di Rodi come sfondo. Nella testa, una grossa storia d’amore appena finita.
Ora, io non so se fu per la storia d’amore che era finita. Se fu perché cambiai sport e iniziai con la boxe. Se semplicemente era voglia di qualcosa di nuovo che parlava in me. Boh. Sta di fatto che tornato da quella vacanza mi tornò una voglia prepotentissima di Boccia.
La causa scatenante fu mio fratello, che dal canto suo odiava i suoi ricci (inspiegabilmente, erano incredibili) e quindi, da che lo ricordo, ha sempre portato i capelli cortissimi.
Quell’anno s’era fissato con i miei perché gli comprassero la macchinetta per rasare i capelli.
Quando arrivò, iniziò una specie di super catena di sant’Antonio. Lui rasava mio padre che non aveva MAI portato la Boccia ma, per compagnia, s’adeguava. Poi mio padre rasava lui. Poi entrambi rompevano il cazzo a me perché mi rasassi.
Le prime volte mi defilavo dal bagno senza rispondere.
Poi, alla ventesima insistenza, dissi: “Va bene, ma a una condizione: mi rasa Fabio (mio fratello)”.
E così fu.
Fu la prima di una serie interminabile di Bocce.
Per noi ormai è un’usanza, una specie di rito. Ci mettiamo nel bagno di casa. Lui mi bagna i capelli, me li riavvia in un senso. Poi mi chiede “Quanti millimetri?”, ma la risposta la sa già.
Tre millimetri.
E inizia a passare.
Sa a memoria dove sono le mie vertigini. Sa come prenderle, come girarci intorno, come andare a affrontarle.
Ci mette cura nei dettagli. La puntatina alle basette. Girare intorno all’orecchio. Non lasciare capelli più lunghi, da nessuna parte.
Perché fare la boccia è una forma d’amore.
E, per chi si affida, è un gesto di grande fiducia.
La Boccia è lo stato definitivo, l’ultima frontiera. Se il barbiere sbaglia a farti i capelli… poco male. Tu sai che, male che vada, puoi sempre accorciare di più. Scendere ancora. C’è sempre la Boccia, come limite estremo. Ma dopo la Boccia non c’è nulla. Solo la pelle. La “buccia”, per così dire.
Quando è ora di rifarti la boccia, te ne accorgi. Improvvisamente i capelli sono troppo lunghi. Magari fino a due ore prima ancora andavano bene, poi li guardi, e vedi quel bozzetto, o quella piccola piega e dici: è ora.
Ed è un bisogno impellente.
E’ capitato, ovviamente, che io avessi questo bisogno… e mio fratello non ci fosse.
In quei casi, data l’impellenza, mi sono lasciato guidare dal sentimento. E mi sono affidato, principalmente,a due miei amici.
Quel che m’ha colpito è quanto ognuno di loro ci mettesse di se nel tagliarmi i capelli.
Quando l’ho chiesto a Giuliano, l’ha fatto a modo suo. S’è acceso la sua sigaretta, abbiamo stappato una birra, messo un po’ di musica. S’è levato gli anelli, la catenina, s’è messo in canottiera, e con la sigaretta penzoloni fra le labbra ha iniziato. Calmo. Tranquillo. Chiaccheravamo. Sarà che lui è pelato, quindi poter avere a che fare con dei capelli non gli dispiace. Gli fa un po’ nostalgia.
Quando ho chiesto a Federico, è stata una cosa rapida. Nervosa, come lui. Scattosa, tanto che non son venuti proprio tutti pari, sono rimasti certi ciuffetti. Una specie di confusione, delle note stonate nella Boccia che, per antonomasia, è l’ordine. La pulizia.
L’unica volta che l’ho chiesto a Giulio, all’inizio era un po’ spaventato. Come se avesse paura di sbagliare. Poi però, presa in mano la macchinetta, è stato perfetto. Preciso, Concentrato. Silenzioso, attento. E’ stato bravissimo. Ma credo non si sia divertito, per questo non gliel’ho chiesto più. Perché m’è sembrato che la vivesse con stress.
Eccola qui, la mia Ballata della Testa Rasata. E’ una canzone maschia e veloce che sussurra una verità: se vogliamo conoscere meglio i nostri amici più stretti, non serve regalare loro il nostro cuore, o la nostra anima.
Basterà affidargli la nostra testa.
sabato 20 febbraio 2010
Sesso, Paracetamolo e Rythm'n'Blues
di Danilo Cipollini
Sposami, Lara. Sposami qui e ora, mentre sono febbricitante, sposami in questo pomeriggio di nuvole. Sposami su questo letto. Sposami velocemente, sposami duro. Scopami.
Aprimi in due e fammi uscire da me stesso.
Sposami, Lara.
Vorrei avere una radio, ora. Un pc, un iPod, qualcosa. Qualcosa che rompa questo silenzio. Canta, Lara. Sposami, Lara.
Tanta la voglia di te che divento duro. Inizio a masturbarmi. Senza passione e senza fretta, come qualcosa di necessario. Vengo, e non mi interessa dove.
Mi alzo dal letto. Brucio. La febbre è ancora alta, temo. Vado in bagno barcollando e mi guardo allo specchio.
Cellerini nella mia testa rasata. Poliziotti in assetto antisommossa, in riga.
Le visiere dei caschi abbassate, le mani strette sui manganelli. Rumore di tamburi quando li sbattono contro gli scudi.
Iniziano a batterli anche contro le pareti del mio cranio. Mi sento sballottato, travolto, sconvolto. Mi sento nudo. Mi sento caldo.
Mi viene da cantare. Una vecchia ballata blues. Sale la musica dagli altoparlanti del mio cervello e io inizio a cantarla.
La canto a voce bassa, poi sempre più forte. E intanto rido.
Si sa, il blues non serve per far stare meglio te: serve per far stare peggio gli altri.
[c’era un pugile \ un campione del mondo \ Sonny Liston \ lui si allenava ascoltando una ballata blues, “Night Train”\ sempre la stessa, ossessivamente – ora capisco perché. Perché era come allenarsi sotto colpi continui, allenarsi con la sofferenza nella testa e nelle mani \ una cosa del genere rende insensibili al dolore, ti ci immerge tanto dentro che ti rende insensibile].
Rido mentre canto forte il mio blues.
E i cellerini nella mia testa accusano il colpo.
Prima smettono di battere i manganelli. E io canto.
Poi iniziano a contorcersi. E io canto.
Infine iniziano a cadere a terra, in preda a spasmi mostruosi. Canta, Lara. Canta.
Il mondo si rovescia mentre chino la faccia in avanti e vomito nel lavandino. Vomito fuori tutti i miei carcerieri, poi apro l’acqua.
Mi sciacquo la faccia, la testa, la nuca. Vomita, Lara.
L’acqua che scorre sulla pelle del mio cranio è un piacere unico. Gocce si insinuano nelle pieghe della pelle del mio collo, scendono verso la schiena, bagnano ancora il pigiama già umido di sudore.
Sudami, Lara.
Torno a letto, Lara non c’è. Non c’è ancora. Non c’è da mesi.
Lara non ci sarà. Sposami, Lara. Scopami, almeno.
Crollo indietro sul letto sfatto e umido. Nel bagno l’acqua continua a scorrere, il lavandino semiostruito non riesce a farla scorrere via. L’acqua sale e lo riempie. Poi tracima, deborda. Poi scorre sul pavimento bianco del bagno, poi filtra sotto la porta, poi invade la mia stanza da letto (sposami, Lara), poi scorre sul parquet, lo bagna e lo rende lucido, poi continua a scorrere, e trascina con se i resti del mio rigetto, coriandoli dei miei cellerini (amami, Lara).
Non c’è musica in questa stanza. Peccato, sarebbe bello ci fosse musica. Un po’ di Blues, Lara, da dedicarti, per farti crollare, per farti contorcere, per vomitarti, dovunque tu sia.
Agonizza, Lara. Agonizza.
La fronte mi scotta di più, poggio un piede a terra, fa CIAK CIAK nel velo d’acqua che copre il pavimento.
Ai 40 gradi la febbre da allucinazioni. Se quest’acqua è un’allucinazione, è un’allucinazione incredibilmente umida.
Apro gli armadietti e frugo, scaravento pezzi di carta e calzini puliti, e fiori secchi e dvd a terra, cadono con un rumore bagnato, un PLOF morbidissimo.
Niente più medicinali, da nessuna parte.
Ci fossi tu, usciresti a comprarmeli, Lara. Ma non ci sei.
Ed è qui che scoppio a piangere, e cado col culo a terra, a mollo nell’acqua che continua a scorrere fuori dal mio bagno. Fermo, al centro della mia stanza. Distrutto.
Non musica. Non ho medicinali. E, soprattutto, non ho te.
Non è questa la vita che volevo, vaffanculo. Non lo so, forse è tardi per rimettere le cose a posto. Posso comprare delle medicine, certo. Posso mettere della musica, sicuro!
Ma non posso riavere te. No, mi sa di no.
Questa vita ormai è andata.
Nella prossima, voglio sesso, paracetamolo e Rhytm’n’Blues.
mercoledì 3 febbraio 2010
Schiuma
di Danilo Cipollini
In questo cesso c’e aria viziata. Viziata, viziata, aria viziata. Modo di dire del cazzo, “aria viziata”. Me la immagino che batte i piedi perché non vuole andare a dormire. Come me, che non voglio andare a dormire e trascino le ore in questo pub mettendo in fila le birre sul bancone.
Ma la birra che bevi prima o poi devi farla uscire, ed ecco come sono arrivato dove sono ora, in questo cesso - in questo cesso, in questo cesso c’e aria viziata e scritte sui muri – come in ogni Cesso Pubblico che si rispetti, aria viziata e scritte sui muri, non c’è scampo – e io qui, al centro, con la testa che gira parecchio, una mano appoggiata al muro per fermare il mondo, l’altra sul fianco, e il mio amichetto del piano di sotto fermo, in attesa dell’ispirazione per fare quel che s’ha da fare e tornare a allineare birre sul bancone.
Alzo gli occhi. “Mario ama Jo”. Buon per Mario.
Oddio, buon per Mario non lo so. Magari Jo non ricambia. E me lo immagino, il povero Mario, finito qui a affogare nella birra la delusione d’amore, e alla fine qui, in questo cesso, a respirare l’aria viziata e a scrivere col pennarello nero il suo desiderio frustrato lì, in alto, a destra. Povero Mario. No, decisamente, non è bene per lui. Buon per Jo, questo si. Ecco, questo possiamo dirlo. Buon per Jo.
Il tempo passa, lo stimolo no ma l’ispirazione alla spinta non si fa viva, quindi lascio lo sguardo randagio sul muro. Qualche centimetro sotto Mario, pennarellone rosso a punta quadrata, “Forza Roma”. Un po’ retrò, un po’ anni settanta, ma ci sta. Chiudo gli occhi e mi sforzo di immaginare la mano che ha tracciato quel segno. E perché, soprattutto. Perché. Scarto un paio di facce che mi vengono in mente e alla fine mi fisso su un ragazzetto con la boccia e gli occhi azzurri, il naso un po’ grosso, ubriaco da far schifo, ma di quell’ubriaco felice, non preso a male: felice.
La sua squadra del cuore ha vinto e lui è venuto qua a festeggiare. E ce la voleva dire la sua felicità, anzi: ce la voleva scrivere. Mi domando se farà così sempre, anche per le altre cose, in futuro. Me lo vorrei immaginare fra quindici anni, in giacca e cravatta, che scrive “Oggi è nato mio figlio”. Oppure “Ho finalmente fatto pace con mio padre dopo quarant’anni di incomprensioni”. Sarebbe fico. Sul serio.
Piscio. Finalmente. Ed è una liberazione. E’ una specie di orgasmo, un orgasmone, un orgasmissimo. La cosa giusta al momento giusto. La Cura giusta, davvero. Qualche schizzo ribelle probabilmente scappa e va a incasinare il fondo di questo bagno. Non ci vuole un genio per immaginarsi che lì sotto le mie gocce saranno in buona compagnia.
Ubriachezza e mira non vanno molto d’accordo, e in un pub la prima di norma soverchia la seconda.
Mi ci vuole sforzo, giuro, per impedirmi di soffermarmi sul party di pipì che si sta tenendo li sotto. Sforzo.
Buon Dio, la mente d’un ubriaco si incastra su cose terribili. Mi impongo salvezza, mi riallaccio e mi giro, pronto per uscire.Già pregusto la schiuma della prossima birra.
E l’occhio mi cade su una scritta, proprio sulla porta. “Carlo, bisex, faccio tutto quello che vuoi”. E un numero di telefono.
Ciao, Carlo. Piacere di conoscerti, Carlo, che sei venuto qui una sera e hai trovato la voglia e il tempo di scrivere questo. Ci deve essere un motivo per cui lo fai, Carlo. E io voglio vederti, Carlo, voglio immaginare la tua timidezza sbriciolata dall’alcol, i freni inibitori che saltano, e mentre la tua ragazza di là ride e scherza coi tuoi amici tu che tappi la bocca alla tua disperazione e fai questo. Che non è proprio il massimo della vita, Carlo.
Davvero farai tutto quello che voglio, Carlo? E allora ascolta me… Rispettati. Questo è quello che voglio, che tu ti rispetti. E, l’hai detto tu, farai tutto quello che voglio, no?
Comincia col lasciare la tua ragazza. Parla coi tuoi amici. Fai quelle analisi che rimandi da un po’, prenditi quel tempo che volevi. Poi parla coi tuoi genitori. E’ ora mi sa.
Che ti prende, Carlo? Non sei più così sicuro di poter fare tutto quel che voglio? Pubblicità ingannevole eh? Capisco. Mi spiace Carlo.
Buona serata, esco, torno a bere.
Davanti al bagno c’è uno che aspettava il suo turno. Mi guarda come a dire “era ora” e si avvia verso la porta che ho lasciato aperta e ci incrociamo appena, passandoci affianco.
Afferro la maniglia della porta esterna, quella che mi rimanda alla sala, quella che mi rimette fra la gente. Mi fermo.
Torno indietro. Afferro la spalla del tipo proprio mentre sta per sparire dietro la porta del mio cesso con l’aria viziata e lo scaravento fuori.
Miagola un “MACCHECCAZZO SUCCEDE?”. Tutto attaccato. Rabbioso. Urgente.
Non ci faccio caso. Entro e chiudo la porta alle mie spalle.
Fanculo, Carlo. Fanculo.
Estraggo una penna dalla tasca, è una banale Bic nera, non scriverà molto. Dovrà bastare. Basterà.
E mentre da fuori l’energumeno inizia a bussare, qualche centimetro sotto Carlo e la sua pubblicità ingannevole scrivo:
“Caro Carlo,
no, non ci conosciamo. Non lo so chi sei. Volevo dirti… Solo questo:
quando uno si lava, può farlo essenzialmente in due modi: tanto bagnoschiuma e poco strofinio, o tanto strofinio e poco bagnoschiuma. Il primo modo regala più profumo alla pelle, ma meno pulizia vera. Il secondo costa più fatica, fra l’altro, ma lascia puliti, puliti sul serio.
A me piacciono le cose che sanno più di strofinio, che di bagnoschiuma. Mi piacciono al punto tale che stasera sono qui, e sono ubriaco, per felicità. Perché dopo anni di pessimi rapporti finalmente ho trovato una persona speciale, speciale davvero. Strano no? La gente di solito si ubriaca per gli amori che finiscono. Io lo faccio per quelli che cominciano.
Non è da un numero sulla porta d’un cesso che cominciano gli amori, Carlo.
Non è bombardandosi di bagnoschiuma che ci si sente puliti.
Strofina forte ragazzo mio”.
La Bic sparisce in tasca. L’energumeno ha smesso di bussare, penso se ne sia andato. Magari starà protestando col titolare del pub.
E’ il momento migliore per un’altra birra
sabato 30 gennaio 2010
Il Pangocciolo del Perdono (sedicente racconto)
di Danilo Cipollini
[dedicato al Nano]
Prendi Caino e Abele. Non che fossero due cattivi ragazzi. Abele poi… un pezzo di pane. Ma nemmeno Caino era poi così stronzo. Solo che… non s’affiatavano, per così dire. Non c’era alchimia.
Comitive diverse, mettiamola così.
Me li immagino. Abele col giacchettino di jeans e il berretto da baseball. Che aiuta le vecchiette a attraversare e va a fare la spesa alla mamma. Cose così.
Caino invece col chiodo di pelle addosso. Gli occhiali specchiati. Col motorino modificato, quello che fa rumore tipo CBR quando lo accendi. Però no un cattivo ragazzo… Solo un tipo un po’ così, ombroso ecco.
Poi litigano, e Caino accoppa Abele.
Va a capire perché, ma litigano. C’è chi dice storie di eredità, io non c’ho mai creduto.
No, se devo dire la mia, magari la cosa sta un po’ più a fondo. Perché spesso, certe alchimie, si falsano per colpa di altre persone. Quelle fra due fratelli, per colpa dei genitori. Spesso.
Crescici tu con l’idea che “l’altro” è meglio di te, sempre, comunque.
Puoi provare a accettarlo, forse, se non è tuo fratello…e questo per almeno due motivi. Primo, puoi dare la colpa alla genetica. Secondo, non ce l’hai sempre sotto gli occhi.
Ma campaci tu con uno nelle orecchie che ti dice, tutti i giorni, tutto il giorno: “Guarda Abele quanto è bravo. Abele studia. Abele lavora. Abele non torna tardi la sera. Abele da gli esami all’università, Abele non si fa le canne, Abele è sempre il primo della classe, il primo della lista, il primo della fila, il Primo Levi (solo se si è ebrei, e Caino e Abele lo erano quindi ci sta).
Campaci tu con una sfiga del genere, con la sfortuna immensa di mangiare pane e nutella, ogni cazzo di pomeriggio della tua vita, con un semidio. La perfezione. Ti batte pure alla playstation, lo stronzo.
E il pane e nutella diventa una crostata al gusto di marmellata di dotto biliare.
Non riesco a rendere l’idea. Ci provo con una metafora.
Se tu sei un pianeta, tuo padre e tua madre che t’hanno generato sono il cosmo. E per quanto mite tu voglia essere, un po’ ci speri che quel cosmo ti giri tutto intorno per sempre. Che ti fornisca le stelle da far brillare nel tuo cielo, di notte.
Se sei sfigato, il tuo cosmo fa schifo, e non ha stelle. Fuor di metafora, capita di avere due genitori di merda. I genitori non te li scegli, capitano. Becchi quelli senza stelle… Amico, hai pescato la pagliuzza più corta al gioco della vita.
Ma se sei VERAMENTE sfigato, il tuo è un cosmo da paura. Ma gira intorno al pianeta accanto al tuo. Su di lui addensa una Via Lattea che da sola basterebbe a far venire un’erezione atomica a Piero e Alberto Angela (due con un colpo). Su di te, scarica un paio di stelline asfittiche che non illuminano un cazzo. E già che c’è, questo cosmo dimmerda ti fa anche notare che l’altro pianeta… Gira meglio. Ha belle foreste. Laghi limpidissimi. E un ampio parcheggio all’ingresso.
Ecco secondo me fra Caino e Abele è andata così. Ed è la storia comune di molti fratelli. Dio solo sa quante alchimie potevano nascere e invece… Ciccia. Finisce a badilate.
Prendi Caino e Abele. Mettili sotto la pioggia, un venerdì sera. Con sulle spalle una giornata difficile. Una serata peggio. Mettili un po’ a parlare, mezz’ora, tre quarti d’ora, sotto la pioggia. A cercare con difficoltà un alchimia, cosmo permettendo.
Mica facile, la vita.
Ci provano, ma non ci riescono tanto bene. Qualche stella se la ridistribuiscono, qualcosa la risolvono pure, sono gente di buona volontà.
Ma lo senti, quando rientrano nella loro cameretta tre metri per tre e si infilano i pigiami, che non sono proprio soddisfatti. Perché quell’alchimia che vogliono,tutti e due, certe volte va proprio a farsi fottere.
Al meglio che può andare, può capitare che uno dei due vada un attimo in cucina e peschi dalla credenza una merendina. Un Pangocciolo. Cristo, ve lo vorrei disegnare, il Pangocciolo. Magari voi non sapete nemmeno com’è fatto. Beh sembra un po’ un cosmo, un cosmo di pane, morbido, pieno di gocce di cioccolata.
Uno dei due ne prende due dalla scatola, torna in camera, e ne passa uno al fratello.
Ci sarebbe da dire che quel Pangocciolo è un esempio eccellente di alchimie difficili… Pane e cioccolato, di loro sono materie distanti. Fisicamente distanti, tanto che di norma, per accoppiarli, devi ricorrere a aberrazioni tipo la Nutella, ovvero snaturare il cioccolato pur di poterlo avvicinare al pane, poterlo legare.
E’ un’alchimia difficile.
Ma il Pangocciolo ce la fa. Li unisce, e bene. Li unisce tanto bene che sfumano, si confondono, e non capisci dove finisce il pane e dove inizia la goccia di cioccolato.
Il Pangocciolo del Perdono. Forse quell’alchimia sarebbe più semplice se si potesse spiegare così. Col Pangocciolo.
Ma non si può. O almeno, mentre ti porgo il mio Pangocciolo del Perdono non ti dico un cazzo.
Magari te lo scrivo, poi.
lunedì 18 gennaio 2010
Elefanti Rosa
di Danilo Cipollini
“Sai,” mi fa lei “tempo fa ho visto una foto, su internet. Era una foto assurda, si vedeva una stanza bellissima, arredata di tutto punto, con classe, con gusto … “
Sbuffo il fumo. Mastico un pezzetto di nulla fra i denti e guardo il suo viso per un secondo. Poi torno a fissare la strada.
Il nodo della cravatta mi da fastidio ma per adesso non lo tocco. C’è più scaramanzia che pigrizia, in questo, ma … tant’è.
“Beh la cosa fantastica di questa foto “mi fa, lei, “E’ che al centro di questa stanza c’era un enorme elefante rosa.”.
E qui tace, qualche secondo, certa dell’effetto teatrale delle sue parole.
“Ecco, in questo momento ho esattamente quella sensazione” – lo dice con un filo d’amarezza, ora – “Mi sembra che nella tua testa ci sia un elefante rosa”.
E un’altra colonna di fumo va a fare il solletico al naso del Padreterno.
La ragazza mi “legge”, e non è cosa da poco.
Sono un libro con la copertina inchiodata, io.
Segno di grande intelligenza, devo dargliene atto. Ma la cosa un po’ mi stizzisce, mi sa che c’ero un po’ affezionato, alla mia imperscrutabilità.
Quindi cucio una rispostaccia sulla lingua e prendo la rincorsa dalla gola per tirarla fuori.
Poi però mi dico che non se la merita, ‘sta stizza, e quindi cerco di smorzarla.
Quel che ne esce fuori, data pure la rincorsa, è un commento sibilato, da serpente stanco, un po’ crucciato. Sembrava soddisfatta della sua metafore.
La cavalco.
Mi limito a dirle “Beh, quindi è nella mia stanza, è il MIO elefante rosa”.
L’illusione è quella di aver chiuso qui il discorso. Di aver detto la parola Fine.
Davvero, se c’è un modo per dire la parola Fine, è quello di separare i campi d’azione. Uno dice: questa cosa è Mia, e sottintende: tu qui non puoi entrare. Fine.
E’ una cosa strana, questa della parola Fine. Vista l’insistenza con cui la maggior parte di noi smania per averla, su tutto, la parola Fine dovrebbe essere una specie di manna dal cielo, una deliziosa prostituta che conduca ai piaceri più grandi che ci riesca di immaginare, un viatico per il paradiso.
Invece, sa di sega di seminarista: vieni, si, ma ti ritrovi tutto sporco, non solo esteriormente. Dentro.
Te la senti pesare addosso, tipo colpa, sarà che di norma è gravida di responsabilità. L’Ultima Parola. La parola Fine.
Niente sega per il mio seminarista. Lei mi toglie l’ultima parola, in men che non si dica.
“Non il TUO elefante rosa” – e lo dice con tutta la dolcezza del mondo, giuro – “il NOSTRO elefante rosa”.
Che poi, a ben vedere, probabilmente non è una di quelle puntualizzazioni che chiudono un discorso. La mia, la mia si, lo avrebbe potuto chiudere. Ma la sua… La sua era un buon modo, per me, per sembrare un po’ meno stronzo. Una donna che ti riacchiappa dalla tana dove sei scappato e ti riporta con dolcezza nel prato del “Noi” è una donna rara.
Poteva essere un’occasione, davvero.
La perdo.
Sarà colpa del sigaro che finisce, con l’ultimo sbuffo che sa sempre un po’ d’amaro, causa tabacco ormai tostato dal calore.
Sarà colpa di quel filo di stizza che ancora passeggia sulla lingua.
Sarà la cravatta che mi stringe ancora il collo, cazzo, mi sembra di esplodere.
Fatto sta che mi sottraggo alla discussione in maniera spregevole. Borbotto solo “Fidati, è il MIO elefante rosa. Quando inizierà a passeggiare dalle tue parti, te ne accorgerai”.
Che è, oggettivamente, una risposta del cazzo. Da maschio frustrato e velenoso.
Quanto la posso capire, quando lei si alza e se ne va?
Un sacco.
E, hai voglia a schiacciare il tasto rewind sulla lingua. Non succede niente. Lei continua a camminare verso l’automobile.
E io resto fermo, seduto al tavolo del bar che spegne l’insegna. La giornata finisce, tutti a casa.
Posso allentare il nodo della cravatta, ora.
Butto via il mozzicone di sigaro ormai spento. Ne accendo un altro. Dovrei fumare di meno.
Dovrei dormire di più. Dovrei andare ad allenarmi con maggiore regolarità. Dovrei smetterla di mandare tutto a puttane. Dovrei liberarmi di certe amicizie che non mi rendono felice. Dovrei scrivere di più, mangiare meno pasta, fare di nuovo le analisi del sangue. Dovrei evitare di complicarmi la vita e imparare a comportarmi. Dovrei smettere di aspettare certe telefonate. O forse iniziare a aspettarle. Punti di vista.
“Dici che la rivedo?”, chiedo, guardando oltre la mia spalla destra e sforzandomi di non sbuffargli il fumo in faccia, per non infastidirlo.
Incassato nella sedia al mio fianco, il mio elefante rosa non mi risponde. Si stringe nelle spalle, se spalle si possono chiamare le giunture d’un elefante, e tira un altro sbuffo di sigaro con la proboscide.
lunedì 14 dicembre 2009
Vecchi racconti; "Ginevra, la tristezza non sa nuotare".
Buona lettura a chi vorrà.
GINEVRA (la tristezza non sa nuotare)
di Danilo Cipollini
Quando stamattina sono uscita da casa tua, sono andata al mare.
Mi ci hai fatto pensare tu ieri sera, al mare... A cena, prima di fare l’amore, quando mentre mi versavi il vino mi dicevi che da casa tua il mare è vicino, così vicino che quasi lo si può immaginare. Non vedere, no, ma immaginare di vederlo.
E io ti invidiavo.
Non che da casa mia sia poi così lontano, il mare. Sono un po’ più di 30 chilometri e un po’ meno di quaranta, quaranta chilometri di una pista d’asfalto grigio che taglia quasi tutta la nostra città, e dalla mia piazza piena di monumenti e perbenismo arriva al tuo mare, alla tua aria fresca, alla tua salsedine.
Non sono tanti, trenta chilometri, ma da casa tua ci si mette meno di dieci minuti, ad arrivare al mare, e così sono uscita presto, lasciandoti nel letto, nudo e ancora addormentato. Sarei dovuta andare a scuola e invece ho fatto sega, sono salita sul motorino e sono andata al mare.
Le sei, per i pescatori, è già tardi, e infatti quando sono arrivata al molo ce n’era rimasto uno solo che finiva di peparare la barca e teneva a consumarsi una sigaretta stretta fra le labbra.
Ti giuro, non lo so perchè sono andata sul molo... Alla fine, un molo è molto meno mare di quanto lo sia una spiaggia, e visto che era il mare quel che stavo cercando, sarei potuta andare su un tratto qualsiasi di spiaggia là intorno, anzichè su quel segnalibro di cemento che divide in due le pagine della nostra costa. Mi ci hanno portato le gambe, al molo, non la testa.
Il pescatore secondo me era ormai pronto per andare, ma per qualche strana ragione aspettava. Ripeteva sempre gli stessi gesti, controllava negli stessi punti, e non mi guardava con quel modo che hanno di non guardare le persone che vogliono farti sapere che no, non ti stanno guardando. Lui guardava fisso il mare, o le reti, e lasciava al venticello il compito di levargli il fumo della sigaretta da davanti agli occhi.
A quel punto ho deciso di andare da lui, e chiedergli se potevo fargli compagnia sulla barca.
All’inizio sono rimasta un po’ stranita, perchè non s’è scomposto neanche un po’ – e immagino che non siano così frequenti, alle sei di mattina sul molo, diciassettenni carine con la minigonna e i tacchi alti che ti chiedono un passaggio verso il blu – e lui, come se fosse il segnale che aspettava, non s’è neanche girato ma m’ha detto solo “andiamo”.
Non parla molto, il pescatore. Quando gli chiedo perchè, lui dice che tutti i pescatori parlano poco, perchè il mare ti porta via tutto, se non stai attento, anche la voce.
In mare sei solo, lo ripete due o tre volte, e anche se non sei solo, il vento rende difficilissimo sentirsi, quindi tanto vale non parlare.
Esagera un po’, deve piacergli parecchio quest’idea del pescatore solitario. Quindi mi accontento di essere lì e per un po’ sto zitta, anche se il vento oggi non è poi tanto forte e la barca è piccola, penso ci si sentirebbe se parlassimo.
Non gli parlo finchè non ha calato tutta la rete. A quel punto spegne il motore e la barca si ferma, la terra lontana alle spalle, intorno tutto blu e arancione, nel cielo, del sole che esplode in un mattino lucido.
Tanto lucido che guardare in su inizia a farmi male, tiro fuori il libro dalla borsa e inizio a leggere.
Quando sento che i suoi occhi mi si sono posati addosso, alzo lo sgaurdo pure io e gli chiedo se vuole che legga ad alta voce. Per un attimo temo che ricominci con la storia del vento che ti rende solo, ma invece lui sorride per la prima volta e fa cenno di si con la testa.
Per un po’ stiamo così, lui a prua, con la gamba poggiata al bordo della barca e una sigaretta dietro l’altra in bocca, e io a poppa, a gambe incrociate, che mi sistemo la gonna e leggo.
Ogni tanto mi fermo e lo guardo, solo per qualche secondo, ricomincio sempre a leggere prima che lui se ne accorga.
E’ meno vecchio di quanto può sembrare all’inizio. Ha la pelle cotta dal sole, questo si, ed è pieno di rughe in cui il sole si infila e si lascia scivolare,come fosse liquido. Rughe profonde ripiene di sole.
Ha occhi verdi, e una bella barba bianca, gonfia, come quella del marinaio dei surgelati.
Mi fermo un po’ troppo a guardarlo e allora lui scrolla via la cenere dalla sigaretta e mi chiede che fine abbia fatto, poi, la puttana coi capelli neri e il vestito troppo corto di cui sto leggendo.
Ricomincio a leggere, e lui sorride.
Ogni tanto mi fermo qualche secondo a guardare i gabbiani.
Recupera le reti, ti risparmio i dettagli, magari un giorno te li racconterò.
Ti dico solo che quando stavo risalendo sul motorino per tornare a casa mi sono tornate in mente le ultime scene che avevo lasciato, uscendo, la sera precedente.
Mio padre che urlava.
Mia madre che faceva le valigie, di nuovo.
Il figlio neonato della vicina che piangeva a dirotto.
Il mendicante davanti al portone che si lavava i resti delle scarpe ad una fontanella, a pochi metri i vigili urbani che facevano le multe, un turista giapponese che gli scattava le foto.
E non c’è stato niente da fare, la tristezza mi ha ripreso, è un maratoneta instancabile, la tristezza, puoi superarla, staccarla sullo scatto, bruciarla in partenza se corri veloce, ma lei ti seguirà, ti starà alle calcagna, aspetterà che tu ti stanchi e poi ti prenderà, alle spalle, da traditrice, e non ti lascerà scampo.
Come i gabbiani che avevo visto quel giorno, in mare, che ci hanno segutio fin dal porto, e hanno aspettato, volteggiando, che ritirassimo le reti, per poi buttarsi in picchiata e rubare qualche pesce. Ci hanno aspettato quasi dieci ore, ma alla fine l’hanno spuntata.
Avrei voluto non andare a casa. Magari tornare da te. Ma sapevo che non era possibile, perchè ormai tua moglie era tornata, e a casa tua non potevo venire.
M’ero rassegnata alla mia tristezza, ma poi m’è venuto in mente che quel giorno non ero stata sempre triste.
Quella mattina, quando il pescatore mi aveva detto “andiamo”, ero stata incredibilmente felice.
E tutto il giorno, mentre ero in mare, ero stata completamente felice.
Forse la tristezza non sa nuotare, per questo in mare non m’ha seguito.
Ho finito la sigaretta, di corsa, sono rimontata sul motorino e sono tornata a casa in tempo per la cena.
Vorrei ringraziarti perchè è grazie a te se stamattina sono venuta qui sul mare, e per qualche ora sono stata felice.
Sarebbe bello se tu potessi leggere questa lettera. La affido al mare, tanto tu ci vieni spesso, se sarà destino te la porterà lui. Altrimenti, la leggeranno i pesci, o un vecchio pescatore con le rughe e la barba bianca.
Non la rileggo, spero abbia un senso.
Ti bacio,
Ginevra.