giovedì 18 marzo 2010

La Ballata della Testa Rasata

LA BALLATA DELLA TESTA RASATA
(Breve cronistoria della mia capigliatura)
di Danilo Cipollini

Le potenti forze del Femminismo, dell’Emancipazione, del Progresso e della tendenza al Nido IKEA, combinandosi, avrebbero potuto portare le Donne a traguardi inaspettati. Meravigliose rivoluzioni. Un progressivo maturare della specie umana, anche.
Invece,tutto quel che hanno prodotto, è uno spostamento di qualche metro.

Non più regina dei fornelli, della cucina, non più mater familiae, la donna è adesso in completa identità e simbiosi col suo bagno. Anziché uscire dalle mura domestiche e invadere un mondo fin ora troppo a immagine e somiglianza dell’Uomo, le donne si sono accontentate di imitare gli uomini in pubblico, salvo poi ritirarsi, a sera, nel loro regno dorato, chiudere a chiave la porta del bagno, e lì giocare ancora a impersonare Principesse.

Diciamocelo a chiare lettere: il vecchio adagio “chi dice donna dice danno” ormai è obsoleto, superato, inattuale. Oggidì, chi dice donna, dice Bagno.
Innanzi tutto, uno specchio con cui confidarsi. L’antenato di internet, una “finestra” dei sogni (il nome windows vi dice niente?).
E, anche in bagno, Tecnologia.
Ma la tecnologia più amica che una donna sia in grado di immaginare: phon, piastra, arricciatore, e così via.
Una vasca da riempire di acqua bollente in cui potersi lasciar andare completamente al riparo dalle forze del male che imperversano nel maschilista mondo esterno. Un autentico Castello in miniatura per le moderne Principesse del Sanitario.

E soprattutto, come in ogni Reame che si rispetti, c’è anche una Bottega della Strega: creme, cremine, preparati, lozioni esfolianti per uno scrub delicato e che lasciano la pelle inebriata di un dolcissimo aroma di rosmarino e papaya.
Shampoo ai frutti di bosco e pachino. Impacco rigenerante allo sperma di mulo e fiordaliso.
Chi dice donna, decisamente, dice Bagno.

Ecco cosa la globalizzazione non riuscirà mai a modificare: il diverso approccio degli Uomini e delle Donne al Bagno.

I momenti che lo legano al bagno sono per un uomo pochi e ben distinti: anzitutto, la grande e soddisfacente cagata mattutina, vero caposaldo di ogni essere umano di sesso maschile.
Poi, la doccia, sbrigativa e ruvida, utilizzando come detergente una qualsiasi pappetta presa a caso fra quelle delle sua compagna (o madre, per l’esemplare maschio in giovane età), schierate in una fila ordinatissima sul bordo della vasca.
In terzo luogo, la rasatura – anche se qui, a onor del vero, dobbiamo dire che alcuni punti di contatto si stanno sviluppando.
Si mormora che alcuni uomini abbiano tradito, stiano passando al nemico, e abbandonata l’usanza tipicamente Unna di radersi quasi a secco, a mò di “spada-contro-guancia”, stiano iniziando a concedersi il lusso di cremine ammorbidenti, rassodanti e – udite udite – addirittura ANTIRUGHE.

I più fortunati aggiungono, a queste poche significative azioni, quella che in gergo si chiama: “Boccia”.
La boccia è una scelta: o tua, o della natura.
Chi i capelli li perde, alla boccia deve ricorrere per forza, salvo trincerarsi in quella aberrazione universalmente conosciuta col nome in codice di “riporto”.
In questo caso, è la natura che sceglie per te.

Diversamente, alla boccia puoi abdicare. Puoi rivolgertici, con dolcezza, quasi con fiducia.
Prendi me.
Sono nato pieno di capelli. Un piccolo orango nel freddo novembrino. E i primi tentativi parentali di pettinatura della mia testolina già rivelarono una atroce verità: vertigini.
Due,solo due, ma grosse. Enormi. Una davanti, leggermente sulla sinistra. E una dietro a destra (invidiabile senso della geometria, da parte della Provvidenza).
Queste vertigini mi costrinsero, dalla più tenera età, al cosiddetto “muretto”. Ovvero capelli di media lunghezza, sostanzialmente pettinati bassi, in avanti, e che poi si alzavano, in una specie di ventaglio, davanti. Una piccola coroncina nera che mi accompagnò dai 4 ai 14 anni.
Per me, la riga in mezzo era un’astrazione impossibile. I boccoli ricci che poi contraddistinsero mio fratello, una impensabile fantasia. Capelli neri, spessi, dritti, e ‘ste due vertigini maledette, una davanti e una dietro.
E quindi, muretto.

Ci furono timidi tentativi di crescita tricologica ulteriore, ma vennero sedati al confine delle orecchie. C’erano delle colonne d’Ercole all’altezza delle orecchie che gridavano “Non plus ultra”, pena la vertigine.
Tutto questo, dicevamo, fino ai quattordici anni.
Fu allora che irruppe nella mia vita in maniera improvvida una cosina chiamata rock ‘n’ roll.

Immaginate un quattordicenne grassottello. Cresciuto a pane e Claudio Baglioni da una famiglia amorevole. Renato Zero, introdotto di nascosto dal mio zio paterno, rappresentava il massimo della trasgressione. Nessuna crisi familiare, nemmeno qualche discussione.
Ottimi voti a scuola.
Un bel quartiere, periferico ma carino, curato, pieno di verde. Dove si può giocare per strada, per dirti. Senza rischiare nulla.
Lettore incallito di qualsiasi libro, qualsiasi, giuro, inclusi “I Nibelunghi”. A quattordici anni! “L’anello dei Nibelunghi”, una palla mostruosa, un libro che dovrebbe essere vietato a persone sotto i sessantacinque!
La Divina Commedia l’avevo letta a undici.

Talmente minchione da non giocare nemmeno a calcio. Facevo JUDO.
Judo, cioè le arti marziali viste da Madre Teresa di Calcutta. L’unica arte marziale in cui NON ci si fa male, mai.
E soprattutto, immaginatevi i suoi capelli “col muretto”.

Ecco, a questo punto prendete il suddetto quattordicenne e speditelo al liceo classico. Abbastanza vicino al suo quartiere dorato, ma comunque fuori. A questo punto, mettetelo a bagno nel suo ’68 personale.
Un casino. Davvero.

Ora, io all’epoca non fumavo. Mai fatto nemmeno un tiro. E, per di più, l’odore di sigaretta mi dava fastidio. Quello della canna, non ne parliamo proprio.
Quindi, quelle erano eliminate a priori.
Cosa rimaneva, del mio ’68 personale?
Sesso, e rock ‘n’roll. Furono gli anni del primo pompino. I primi approcci all’altro sesso. E, soprattutto, iniziai a cantare con un gruppo.
Probabilmente avrei voluto anche suonare qualcosa, che ne so, la chitarra. Ma la Natura m’ha creato provvisto di mano “pesante”, utile quando si tratta di riportare la pace sulla terra mediante una sonora dose di mazzate, ma inutilizzabile su qualsivoglia strumento. Però, per contrappasso, m’ha regalato una voce decente. E allora, giù a cantare.
Ed era tutto un fiorire di Led Zeppelin, di Sex Pistols, di Deep Purple. Era come sentire la vita riallinearsi. C’era solo UNA cosa che stonava: i capelli col muretto.
Così, prendo il coraggio a due mani e scelgo: diventeranno lunghi.

Arriva ferragosto. Come da tradizione, si va a casa di nonno, in campagna. Non lo vedevo da un po’, qualche mese. Appaio nel sole di agosto con il giacchetto di pelle e i capelli già lunghi fino alle spalle.
E mio nonno trasale. Ma tace.
Aspetta. Infido.
A tavola, a pranzo, davanti a tutti, la butta lì. “Cos’è” mi fa “Hai litigato col barbiere?”. E sorride.
E io, coglione, ingenuo: “ No Nonno, pensavo di farli crescere”. E lui si mette a ridere. “Dai, sul serio, quando li tagli?”.
Io ERO serio. Glielo spiego.
La risposta è di quelle da scrivere a fuoco negli annali.
“Solo i Drogati e i Papponi hanno i capelli lunghi”.
Che spettacolo. Eccolo il mio ’68 personale. Ci voleva un po’ di scontro generazionale.
A dirla tutta, a me i capelli lunghi piacevano ma già mi stavano un po’ scocciando. Scomodissimi.
Ma, dopo quel Ferragosto, quei capelli erano trascesi. Erano diventati metafisica. Erano un Simbolo. Li lasciai crescere per 4 anni. Per un periodo, mi arrivavano quasi al culo.
Continuavo a non farmi le canne, iniziavo a sbronzarmi, avevo conosciuto decisamente meglio l’altro sesso, e cantavo, cantavo, cantavo. Studiare non se ne parlava. Alla fine, me la cavavo sempre. I voti non erano più sbalorditivi, ma comunque buoni. Ed era questa la cosa che “il Nemico”, il mondo degli adulti (ignaro del mio ’68), non mandava giù.
Non era possibile, sfuggiva alle loro logiche. Uno che faceva quello che facevo io doveva PER FORZA andare male a scuola.
Questo divideva i miei professori in due grandi schiere: quelli che mi riconoscevano una certa genialità, e quindi mi amavano. E quelli, la maggioranza, che detestava me, il mio ’68 privato e la mia saccenza. L’arroganza di riuscire a non andare male pur sfuggendo alle loro regole. Alle loro ricette.
Fu con questo clima che affrontai la maturità.
Il pomeriggio prima dell’orale, andai dal barbiere (che non mi vedeva da anni e stentò a riconoscermi) e dissi solo: Taglia.
Fu la mia prima “boccia”. L’unica che in vita mia abbia tosato un barbiere. E non a caso, doveva essere lui. Non avrei sopportato che un amico uccidesse i miei amati capelli. Doveva farlo un estraneo.
Ventotto giugno, entro in aula per l’orale della maturità. La prof di Geografia Astronomica, nonché mio peggior nemico, napoletanissima, temutissima, mi guarda e fa: “Cipollini: finalmente con dei capelli da bravo ragazzo!”.
Ho sorriso e mi sono seduto mormorando: “Cominciamo”.
Gli annali del mio liceo tutt’ora ricordano che la votazione che seguì il mio esame fu la più problematica degli ultimi vent’anni. A un certo punto, la professoressa di filosofia, di cui non voglio fare il nome ma comunque si chiamava Maddalena Pinto e io la saluto, afferrò un banco e tentò con quello di percuotere una collega. Non si riuscivano a accordare sul voto. Si passava dal 98 (il 100 per me era irraggiungibile, ringraziando la bastardaggine del mio Peggior Nemico che aveva fatto bene i suoi conti), al 72. Un margine di quasi 30 punti. Surreale.
Ne uscii con 90, grazie anche alla quasi rissa.
Novanta centesimi alla maturità classica e i capelli corti.
Ma non durò. Non poteva durare.
Provai alcuni pietosi ibridi, mezze lunghezze. Una volta arrivai all’umiliazione di andare dal barbiere con una foto presa da una rivista. Ridicolo.
Questa tiritera durò poco più di un anno. Poi, il richiamo della foresta.
Tornai al lungo. Per anni e anni.
L’ultima immagine di me coi capelli lunghi è un’estate di sole greco, io e tre amici strettissimi, in sella a due motorini scassatissimi. Il mare di Rodi come sfondo. Nella testa, una grossa storia d’amore appena finita.
Ora, io non so se fu per la storia d’amore che era finita. Se fu perché cambiai sport e iniziai con la boxe. Se semplicemente era voglia di qualcosa di nuovo che parlava in me. Boh. Sta di fatto che tornato da quella vacanza mi tornò una voglia prepotentissima di Boccia.

La causa scatenante fu mio fratello, che dal canto suo odiava i suoi ricci (inspiegabilmente, erano incredibili) e quindi, da che lo ricordo, ha sempre portato i capelli cortissimi.
Quell’anno s’era fissato con i miei perché gli comprassero la macchinetta per rasare i capelli.
Quando arrivò, iniziò una specie di super catena di sant’Antonio. Lui rasava mio padre che non aveva MAI portato la Boccia ma, per compagnia, s’adeguava. Poi mio padre rasava lui. Poi entrambi rompevano il cazzo a me perché mi rasassi.
Le prime volte mi defilavo dal bagno senza rispondere.
Poi, alla ventesima insistenza, dissi: “Va bene, ma a una condizione: mi rasa Fabio (mio fratello)”.
E così fu.
Fu la prima di una serie interminabile di Bocce.
Per noi ormai è un’usanza, una specie di rito. Ci mettiamo nel bagno di casa. Lui mi bagna i capelli, me li riavvia in un senso. Poi mi chiede “Quanti millimetri?”, ma la risposta la sa già.
Tre millimetri.
E inizia a passare.
Sa a memoria dove sono le mie vertigini. Sa come prenderle, come girarci intorno, come andare a affrontarle.
Ci mette cura nei dettagli. La puntatina alle basette. Girare intorno all’orecchio. Non lasciare capelli più lunghi, da nessuna parte.
Perché fare la boccia è una forma d’amore.
E, per chi si affida, è un gesto di grande fiducia.
La Boccia è lo stato definitivo, l’ultima frontiera. Se il barbiere sbaglia a farti i capelli… poco male. Tu sai che, male che vada, puoi sempre accorciare di più. Scendere ancora. C’è sempre la Boccia, come limite estremo. Ma dopo la Boccia non c’è nulla. Solo la pelle. La “buccia”, per così dire.

Quando è ora di rifarti la boccia, te ne accorgi. Improvvisamente i capelli sono troppo lunghi. Magari fino a due ore prima ancora andavano bene, poi li guardi, e vedi quel bozzetto, o quella piccola piega e dici: è ora.
Ed è un bisogno impellente.
E’ capitato, ovviamente, che io avessi questo bisogno… e mio fratello non ci fosse.
In quei casi, data l’impellenza, mi sono lasciato guidare dal sentimento. E mi sono affidato, principalmente,a due miei amici.
Quel che m’ha colpito è quanto ognuno di loro ci mettesse di se nel tagliarmi i capelli.
Quando l’ho chiesto a Giuliano, l’ha fatto a modo suo. S’è acceso la sua sigaretta, abbiamo stappato una birra, messo un po’ di musica. S’è levato gli anelli, la catenina, s’è messo in canottiera, e con la sigaretta penzoloni fra le labbra ha iniziato. Calmo. Tranquillo. Chiaccheravamo. Sarà che lui è pelato, quindi poter avere a che fare con dei capelli non gli dispiace. Gli fa un po’ nostalgia.

Quando ho chiesto a Federico, è stata una cosa rapida. Nervosa, come lui. Scattosa, tanto che non son venuti proprio tutti pari, sono rimasti certi ciuffetti. Una specie di confusione, delle note stonate nella Boccia che, per antonomasia, è l’ordine. La pulizia.

L’unica volta che l’ho chiesto a Giulio, all’inizio era un po’ spaventato. Come se avesse paura di sbagliare. Poi però, presa in mano la macchinetta, è stato perfetto. Preciso, Concentrato. Silenzioso, attento. E’ stato bravissimo. Ma credo non si sia divertito, per questo non gliel’ho chiesto più. Perché m’è sembrato che la vivesse con stress.

Eccola qui, la mia Ballata della Testa Rasata. E’ una canzone maschia e veloce che sussurra una verità: se vogliamo conoscere meglio i nostri amici più stretti, non serve regalare loro il nostro cuore, o la nostra anima.
Basterà affidargli la nostra testa.

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