lunedì 14 dicembre 2009

Vecchi racconti; "Ginevra, la tristezza non sa nuotare".

Tiro fuori un racconto scritto tempo fa ma, credo, mai pubblicato su nessuno dei miei pseudoblogghini fin ora. Quindi, un esclusiva tetropiloctomica, in attesa di avere maggior tempo per scrivere qualcosa di "fresco" (forse già stasera, se riesco).
Buona lettura a chi vorrà.


GINEVRA (la tristezza non sa nuotare)

di Danilo Cipollini

Quando stamattina sono uscita da casa tua, sono andata al mare.

Mi ci hai fatto pensare tu ieri sera, al mare... A cena, prima di fare l’amore, quando mentre mi versavi il vino mi dicevi che da casa tua il mare è vicino, così vicino che quasi lo si può immaginare. Non vedere, no, ma immaginare di vederlo.

E io ti invidiavo.

Non che da casa mia sia poi così lontano, il mare. Sono un po’ più di 30 chilometri e un po’ meno di quaranta, quaranta chilometri di una pista d’asfalto grigio che taglia quasi tutta la nostra città, e dalla mia piazza piena di monumenti e perbenismo arriva al tuo mare, alla tua aria fresca, alla tua salsedine.

Non sono tanti, trenta chilometri, ma da casa tua ci si mette meno di dieci minuti, ad arrivare al mare, e così sono uscita presto, lasciandoti nel letto, nudo e ancora addormentato. Sarei dovuta andare a scuola e invece ho fatto sega, sono salita sul motorino e sono andata al mare.

Le sei, per i pescatori, è già tardi, e infatti quando sono arrivata al molo ce n’era rimasto uno solo che finiva di peparare la barca e teneva a consumarsi una sigaretta stretta fra le labbra.

Ti giuro, non lo so perchè sono andata sul molo... Alla fine, un molo è molto meno mare di quanto lo sia una spiaggia, e visto che era il mare quel che stavo cercando, sarei potuta andare su un tratto qualsiasi di spiaggia là intorno, anzichè su quel segnalibro di cemento che divide in due le pagine della nostra costa. Mi ci hanno portato le gambe, al molo, non la testa.

Il pescatore secondo me era ormai pronto per andare, ma per qualche strana ragione aspettava. Ripeteva sempre gli stessi gesti, controllava negli stessi punti, e non mi guardava con quel modo che hanno di non guardare le persone che vogliono farti sapere che no, non ti stanno guardando. Lui guardava fisso il mare, o le reti, e lasciava al venticello il compito di levargli il fumo della sigaretta da davanti agli occhi.

A quel punto ho deciso di andare da lui, e chiedergli se potevo fargli compagnia sulla barca.

All’inizio sono rimasta un po’ stranita, perchè non s’è scomposto neanche un po’ – e immagino che non siano così frequenti, alle sei di mattina sul molo, diciassettenni carine con la minigonna e i tacchi alti che ti chiedono un passaggio verso il blu – e lui, come se fosse il segnale che aspettava, non s’è neanche girato ma m’ha detto solo “andiamo”.

Non parla molto, il pescatore. Quando gli chiedo perchè, lui dice che tutti i pescatori parlano poco, perchè il mare ti porta via tutto, se non stai attento, anche la voce.

In mare sei solo, lo ripete due o tre volte, e anche se non sei solo, il vento rende difficilissimo sentirsi, quindi tanto vale non parlare.

Esagera un po’, deve piacergli parecchio quest’idea del pescatore solitario. Quindi mi accontento di essere lì e per un po’ sto zitta, anche se il vento oggi non è poi tanto forte e la barca è piccola, penso ci si sentirebbe se parlassimo.

Non gli parlo finchè non ha calato tutta la rete. A quel punto spegne il motore e la barca si ferma, la terra lontana alle spalle, intorno tutto blu e arancione, nel cielo, del sole che esplode in un mattino lucido.

Tanto lucido che guardare in su inizia a farmi male, tiro fuori il libro dalla borsa e inizio a leggere.

Quando sento che i suoi occhi mi si sono posati addosso, alzo lo sgaurdo pure io e gli chiedo se vuole che legga ad alta voce. Per un attimo temo che ricominci con la storia del vento che ti rende solo, ma invece lui sorride per la prima volta e fa cenno di si con la testa.

Per un po’ stiamo così, lui a prua, con la gamba poggiata al bordo della barca e una sigaretta dietro l’altra in bocca, e io a poppa, a gambe incrociate, che mi sistemo la gonna e leggo.

Ogni tanto mi fermo e lo guardo, solo per qualche secondo, ricomincio sempre a leggere prima che lui se ne accorga.

E’ meno vecchio di quanto può sembrare all’inizio. Ha la pelle cotta dal sole, questo si, ed è pieno di rughe in cui il sole si infila e si lascia scivolare,come fosse liquido. Rughe profonde ripiene di sole.

Ha occhi verdi, e una bella barba bianca, gonfia, come quella del marinaio dei surgelati.

Mi fermo un po’ troppo a guardarlo e allora lui scrolla via la cenere dalla sigaretta e mi chiede che fine abbia fatto, poi, la puttana coi capelli neri e il vestito troppo corto di cui sto leggendo.

Ricomincio a leggere, e lui sorride.

Ogni tanto mi fermo qualche secondo a guardare i gabbiani.

Recupera le reti, ti risparmio i dettagli, magari un giorno te li racconterò.

Ti dico solo che quando stavo risalendo sul motorino per tornare a casa mi sono tornate in mente le ultime scene che avevo lasciato, uscendo, la sera precedente.

Mio padre che urlava.

Mia madre che faceva le valigie, di nuovo.

Il figlio neonato della vicina che piangeva a dirotto.

Il mendicante davanti al portone che si lavava i resti delle scarpe ad una fontanella, a pochi metri i vigili urbani che facevano le multe, un turista giapponese che gli scattava le foto.

E non c’è stato niente da fare, la tristezza mi ha ripreso, è un maratoneta instancabile, la tristezza, puoi superarla, staccarla sullo scatto, bruciarla in partenza se corri veloce, ma lei ti seguirà, ti starà alle calcagna, aspetterà che tu ti stanchi e poi ti prenderà, alle spalle, da traditrice, e non ti lascerà scampo.

Come i gabbiani che avevo visto quel giorno, in mare, che ci hanno segutio fin dal porto, e hanno aspettato, volteggiando, che ritirassimo le reti, per poi buttarsi in picchiata e rubare qualche pesce. Ci hanno aspettato quasi dieci ore, ma alla fine l’hanno spuntata.

Avrei voluto non andare a casa. Magari tornare da te. Ma sapevo che non era possibile, perchè ormai tua moglie era tornata, e a casa tua non potevo venire.

M’ero rassegnata alla mia tristezza, ma poi m’è venuto in mente che quel giorno non ero stata sempre triste.

Quella mattina, quando il pescatore mi aveva detto “andiamo”, ero stata incredibilmente felice.

E tutto il giorno, mentre ero in mare, ero stata completamente felice.

Forse la tristezza non sa nuotare, per questo in mare non m’ha seguito.

Ho finito la sigaretta, di corsa, sono rimontata sul motorino e sono tornata a casa in tempo per la cena.

Vorrei ringraziarti perchè è grazie a te se stamattina sono venuta qui sul mare, e per qualche ora sono stata felice.

Sarebbe bello se tu potessi leggere questa lettera. La affido al mare, tanto tu ci vieni spesso, se sarà destino te la porterà lui. Altrimenti, la leggeranno i pesci, o un vecchio pescatore con le rughe e la barba bianca.

Non la rileggo, spero abbia un senso.

Ti bacio,

Ginevra.


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