domenica 6 giugno 2010

Quelli che eravamo noi. Barcellona.

Posto questo, che non è più d'un ricordo. Ha la stessa storia di quest'altro Barcellona. E' lo stesso viaggio, con le stesse persone. Perché è proprio così: dietro il blog, c'è un'amicizia che parte da lontano e parecchie delle stronzate che leggete, le abbiamo fatte insieme. Parecchi di quei rum e cola, che sono un po' i protagonisti dei nostri post, sono andati giù, quando stavamo seduti allo stesso tavolo. Era giusto per dirvelo.




Di solito si parte dall’inizio. Ma non ci riesco, mi vien meglio partire dalla fine. E la fine, acclarata, conclamata, non è stata quando il tribolato e traballante aereo ha scagliato a terra le sue ruote una per volta. No, la fine, certificata e sottolineata del viaggio, è stata quando, messo piede a casa, ho acceso il televideo e ho letto qualcosa riguardo una legge sulla cortesia negli uffici e che si vuole la croce nel tricolore. Quella è stata la fine del viaggio. Il duro, traumatico, ritorno alla realtà e a questa terra che sovente indico con un’imprecazione. E allora viene ancora più facile bestemmiare per tornare indietro a scavicchiare qualche ricordo ancora caldo dal retrobottega. Per trovare un appiglio, un placebo che rilassi, e che bagni di nostalgia quel che è ora. Nostalgia vitrea e soporifera, spalmata lungo i vialoni di Barcellona, sul Mirò della Rambla, fra le finestre di Casa Battlò, sugli sterrati di Park Guell. Nostalgia fabbricata in bevute e risate, con gente che come me si dava il suo bel da fare per vomitarsi l’anima. Si, perché l’anima ce la siamo vomitata, o quantomeno ripulita. Una spugnata per lucidare quell’opaco dell’immobilità. Si arriva in Spagna e si sente il fremito di un punto zero, di un cambiamento, di una ragione fioca e vessata dalle circostanze, che vuole riemergere come una statua incastrata in un marmo non ancora scolpito. Questa era Barcellona per me e credo per molti di noi. In viaggio, si ha il piacere della scoperta, del ricercare ed in effetti c’è stato anche quello. Prima di essere soppiantato da un senso ancor più profondo, di quiete, posta nel centro di quell’aria gitana, di strade pervase di essenze vitali, di creatività quasi molesta all’occhio per quanto sgargiante. La quiete. La quiete di sentirsi a proprio agio, coccolato dai palazzi del Barrio Gotico e nella poca luce che ti delude le pupille, pure nella calura della mediana. E’ così che ti accorgi che sono proprio i colori ad avere sapore. Attraversandoli in estasi eterea, raggruppandoli con la mano in una manciata di sensazioni da tenersi in tasca, per almeno tutta questa vita. Dietro ad ogni goccia d’alcool c’abbiamo nascosto cose, che ci eravamo portati dietro. Bagagli senza etichetta e forse qualcuno l’abbiamo perso da quelle parti, stipato nei locali, in fondo ai bicchieri, tornando più leggeri. Abbiamo camminato e bruciato tutto, c’è stata voglia, tanta voglia. Dando un senso profondo al brusio e al tintinnare, al rumore del vetro infranto, dell’addormentarsi nel bagno, del salutare sconosciute, di parlare una lingua non nostra.
C’è Barcellona e poi il resto del mondo.
Forse per quei tre giorni, il resto del mondo, non c’è stato.

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