venerdì 18 giugno 2010

Questa Non E' Una Storia Porno

La risacca, s’era portata un cartello da Bisanzio nell’anno più o meno appena svaccato. Nuvole selvagge aravano la terra, in un nero seppia antico, da averlo in fotografia. Decrepite bisbetiche sfidavano la vita, a colpi di malocchio, sussurrando il malcontento di un’esistenza assente. Sputavano controvento preghiere sboccate, così strette in mezzo ai denti da vibrare giù per i campi.

Le vecchie, prima degli altri, lo videro.

Montarono i denti a nacchere e suonando l’alleluia si mossero, come l’ombra curva d’un corpo solo, verso quell’evento che la pietà di Dio concesse loro. Scivolarono, fluttuarono, mani giunte, come meduse terrene, fino ad arrivare in ciocche di cipiglio dove che il mare salivava stanco, e moribondo si ritirava, per esser ventre e carnefice di qualcuno che qualcuno non vuole essere più. L’acqua carezzò perl’ultima volta il bagnasciuga, allontanandosi assieme alla sabbia, la via, i germogli, scappando in eleganza da sotto i piedi delle austere, lasciando la scenografia al castello cittadino, di grigio vestito, dalle orecchie in drappeggi rossi. Mura senza fortuna, cui hanno tolto il senno. Le megere, avevano il sospiro sopito fra le guance, ad appassire in odore di aglio, impastato, mentre avide leggevano, tenendo ognuna con la mano il verbo di cartone. Se le parole avessero le gambe, fuggirebbero dal mio dire, da tanto turpiloquio ne seguì. Invettive e maledizioni scapparono al vento, mentre esse lanciarono con inaspettata forza, quello scritto oltre le mura. Questo cadde nel cortile, senza frignare, si riposò nella terra per un ora mezza, a spogliare il cielo con i pensieri, fino a quando lo trasse in aria una mano di uomo, così forte da sembrare sincera. Era il Cavaliere delle Righe Storte, il più nobile degli sconosciuti. Senza complimenti, il cartello si innamorò di lui. Occhi di paure ben celate, capelli di Bretagna, e voce, ah che voce, fatta di spezie orientali. Senza pentimenti, allora si lasciò leggere, li, su due piedi, sfumando pudore in voluttà. La rivelazione che colpì il cavaliere, non colpì la cavalcatura, che partì sotto suggerimento del frustino. In quel giorno vigilia di niente, il cavaliere prese il cammino, portando seco il cartello, in una muta di paesaggi, volarono il mondo, arrivando ben due volte dove fumava il vecchio culo del sole. Trovarono la casa di una bambina e dopo aver bussato alla porta, il cavaliere poggiò sullo zerbino il cartello innamorato e fuggi senza voltarsi, piangendo lacrime di liberazione. La bimba aprì la porta. Era fatta di vetro e sorriso, ma di un vetro che sapeva di carne e di un sorriso che parlava tristezza. Aveva tutta la vita di dietro, dentro la casa, ammucchiata in sogni tremanti, divisa in sacche da viaggio mai usate. Spiravano colonne di nostalgia dal caminetto acceso, rubando all’aria l’immobilità del freddo. La bimba raccolse il cartello, per non vedere disordine, ma non sapendo leggere, con cortesia lo ripose sul tavolo. Lui si accomodò su un morbido centrino godendosi il sollievo alla schiena, provata da tanto girovagare. Lei si accostò al telefono chiamando il dottore, esprimendosi in versi di donna, controllando nella tasca il suo pacchetto vuoto di Lucky Strike. Il dottore comparì poco dopo, giù nell’orto, mangiando un’arancia con la buccia. Con il naso poggiato sotto gli occhiali ed una figura così minuta da poter rendere ridicolo il senso stesso del termine, si apprestò in fretta e furia a visitare il cartello, leggendolo con scienza esatta. Mentre il volto dell’uomo si preoccupava di non preoccuparsi, il cartello avrebbe voluto chiedere notizie sulla sua salute, ma gli riuscì appena di rimanere com’era sempre stato nei confronti del mondo: disincantato e senz’altro da aggiungere. Il dottore era sveglio, nonostante non l’avesse mai dimostrato. Con un cenno, chiamò le vecchie dall’altra parte del mondo e sussurrò al cavaliere di prestargli attenzione, dovunque esso fosse. Organizzarono in fretta il da farsi. La mattina nemmeno fece in tempo a scalare l’orizzonte, quando li sentii urlare, tutti assieme, sotto la mia finestra. Aprii gli occhi e mi ritrovai sveglio che fornicavo col cuscino. Balbettai il passo di pigiama fino ai vetri, che aprii a fatica. E in effetti c’erano proprio tutti; la bambina, le vecchie, il cavaliere, il dottore. L’unico restio ad urlare era il cartello. Fecero proclami e minacce, suppliche ed invettive, fintantoché, non dovetti cedere. Avrei rimesso a posto le loro vite, mi sarei ripreso cartello e maledizione. Fu il cavaliere, più prestante di altri, a lanciarmelo. Mi sporsi considerevolmente e con una mano riuscii ad afferrarlo. Era unto, insabbiato e leccandolo sapeva di sale. Non come quando l’avevo scritto. Salutai tutti con la mano e mi sedetti alla scrivania, sospirando l’emozione d’abbandono che provavo. Così li aiutai. Resi loro una morte degna, cancellandoli da ogni storia scritta, distruggendo ogni traccia della loro memoria. Ne salvai solamente due. Una, spero un giorno non mi venga a trovare, spero rimanga lontana da questo posto, e spero che arrivi a sera con i piedi dolenti per i chilometri lasciati alle spalle. L’altro è qui con me, ora pulito ed appeso al suo posto, con il suo petto che a tutti dice “Scemo chi legge”.

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