sabato 9 gennaio 2010

Il manicomio

Il manicomio è qua, eccolo, proprio al centro della mia testa; migliaia di pazzi, addossati gli uni agli altri, che nei momenti buoni formano sinergie per mostrare una persona equilibrata, a voi che li potete vedere solo nel complesso, da fuori i due soli occhi dietro i quali si accalcano per osservare il mondo.
Voi non lo sapete, voi non ve ne accorgete, ma quei pazzi sono li, nel manicomio proprio dentro la mia testa, che strepitano e urlano ognuno una sola, singola nota angosciante.
Ce ne sono due che si urlano in faccia, uno urla che l'ama, uno urla che l'odia, e se quello che l'ama ora si sente di più è solo per la potenza del controcanto che gli fanno dietro gli altri pazzi: uno che lei non ti ama, uno che lei non è ciò che sembra, uno sa solo che ti chiama, uno urla il modo devastante in cui lei è bella, uno come ride, uno come balla, uno tace, ma si da un gran da fare, a renderti la testa leggera e un poco più silenziosa quando ti perdi nei suoi occhi.
Uno, e la sua voce, sola, sovrasta tutte le altre, urla di lui, della sua morte; uno ti urla la tua colpa, un'altro, figlio di puttana con la voce flebile, gli sussurra contro la sua follia.
Uno ti chiama padre, uno figlio e uno fratello, uno urla con parole incomprensibili, cercando di pronunciare l'unica in grado di unire insieme queste tre.
Uno ti chiama alla tua vita, e forse nemmeno è pazzo, solo frustrato per non essere mai ascoltato. Uno ti chiama uomo, uno bambino, e ballano insieme sui resti marci della tua coscienza.
Urlano tutti, per attirare la tua attenzione, ognuno con la propria voce, ognuno la sua follia, ma mai, mai pronunciando l'unica parola che potrebbe avere un significato: il tuo nome, il loro nome, la parola che, sola, è in grado di definirti, di mettere a tacere e far rinsavire tutti i matti del manicomio che se ne sta li, proprio al centro della tua testa.

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