lunedì 18 gennaio 2010

Elefanti Rosa

Elefanti Rosa
di Danilo Cipollini



“Sai,” mi fa lei “tempo fa ho visto una foto, su internet. Era una foto assurda, si vedeva una stanza bellissima, arredata di tutto punto, con classe, con gusto … “
Sbuffo il fumo. Mastico un pezzetto di nulla fra i denti e guardo il suo viso per un secondo. Poi torno a fissare la strada.
Il nodo della cravatta mi da fastidio ma per adesso non lo tocco. C’è più scaramanzia che pigrizia, in questo, ma … tant’è.
“Beh la cosa fantastica di questa foto “mi fa, lei, “E’ che al centro di questa stanza c’era un enorme elefante rosa.”.
E qui tace, qualche secondo, certa dell’effetto teatrale delle sue parole.
“Ecco, in questo momento ho esattamente quella sensazione” – lo dice con un filo d’amarezza, ora – “Mi sembra che nella tua testa ci sia un elefante rosa”.

E un’altra colonna di fumo va a fare il solletico al naso del Padreterno.

La ragazza mi “legge”, e non è cosa da poco.
Sono un libro con la copertina inchiodata, io.
Segno di grande intelligenza, devo dargliene atto. Ma la cosa un po’ mi stizzisce, mi sa che c’ero un po’ affezionato, alla mia imperscrutabilità.
Quindi cucio una rispostaccia sulla lingua e prendo la rincorsa dalla gola per tirarla fuori.

Poi però mi dico che non se la merita, ‘sta stizza, e quindi cerco di smorzarla.
Quel che ne esce fuori, data pure la rincorsa, è un commento sibilato, da serpente stanco, un po’ crucciato. Sembrava soddisfatta della sua metafore.
La cavalco.
Mi limito a dirle “Beh, quindi è nella mia stanza, è il MIO elefante rosa”.

L’illusione è quella di aver chiuso qui il discorso. Di aver detto la parola Fine.
Davvero, se c’è un modo per dire la parola Fine, è quello di separare i campi d’azione. Uno dice: questa cosa è Mia, e sottintende: tu qui non puoi entrare. Fine.
E’ una cosa strana, questa della parola Fine. Vista l’insistenza con cui la maggior parte di noi smania per averla, su tutto, la parola Fine dovrebbe essere una specie di manna dal cielo, una deliziosa prostituta che conduca ai piaceri più grandi che ci riesca di immaginare, un viatico per il paradiso.
Invece, sa di sega di seminarista: vieni, si, ma ti ritrovi tutto sporco, non solo esteriormente. Dentro.
Te la senti pesare addosso, tipo colpa, sarà che di norma è gravida di responsabilità. L’Ultima Parola. La parola Fine.

Niente sega per il mio seminarista. Lei mi toglie l’ultima parola, in men che non si dica.
“Non il TUO elefante rosa” – e lo dice con tutta la dolcezza del mondo, giuro – “il NOSTRO elefante rosa”.

Che poi, a ben vedere, probabilmente non è una di quelle puntualizzazioni che chiudono un discorso. La mia, la mia si, lo avrebbe potuto chiudere. Ma la sua… La sua era un buon modo, per me, per sembrare un po’ meno stronzo. Una donna che ti riacchiappa dalla tana dove sei scappato e ti riporta con dolcezza nel prato del “Noi” è una donna rara.
Poteva essere un’occasione, davvero.
La perdo.
Sarà colpa del sigaro che finisce, con l’ultimo sbuffo che sa sempre un po’ d’amaro, causa tabacco ormai tostato dal calore.
Sarà colpa di quel filo di stizza che ancora passeggia sulla lingua.
Sarà la cravatta che mi stringe ancora il collo, cazzo, mi sembra di esplodere.
Fatto sta che mi sottraggo alla discussione in maniera spregevole. Borbotto solo “Fidati, è il MIO elefante rosa. Quando inizierà a passeggiare dalle tue parti, te ne accorgerai”.

Che è, oggettivamente, una risposta del cazzo. Da maschio frustrato e velenoso.
Quanto la posso capire, quando lei si alza e se ne va?
Un sacco.
E, hai voglia a schiacciare il tasto rewind sulla lingua. Non succede niente. Lei continua a camminare verso l’automobile.
E io resto fermo, seduto al tavolo del bar che spegne l’insegna. La giornata finisce, tutti a casa.
Posso allentare il nodo della cravatta, ora.
Butto via il mozzicone di sigaro ormai spento. Ne accendo un altro. Dovrei fumare di meno.
Dovrei dormire di più. Dovrei andare ad allenarmi con maggiore regolarità. Dovrei smetterla di mandare tutto a puttane. Dovrei liberarmi di certe amicizie che non mi rendono felice. Dovrei scrivere di più, mangiare meno pasta, fare di nuovo le analisi del sangue. Dovrei evitare di complicarmi la vita e imparare a comportarmi. Dovrei smettere di aspettare certe telefonate. O forse iniziare a aspettarle. Punti di vista.

“Dici che la rivedo?”, chiedo, guardando oltre la mia spalla destra e sforzandomi di non sbuffargli il fumo in faccia, per non infastidirlo.
Incassato nella sedia al mio fianco, il mio elefante rosa non mi risponde. Si stringe nelle spalle, se spalle si possono chiamare le giunture d’un elefante, e tira un altro sbuffo di sigaro con la proboscide.

5 commenti:

  1. complimenti!!!!arriva..meravigliosamente comunicativo!!!!flavia

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  2. Come il vino buono. Invecchiando migliori.

    C.D.

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  3. te e i tuoi elefanti rosa...
    goob job my dear...arriva dove deve arrivare!
    Dada

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  4. Mi ha colpito molto il passaggio sulla fine, mi ha colpito soprattutto in relazione al fatto che la conclusione ha quell'atmosfera incompiuta, umida, quella di quando sei affacciato al balcone con la sigaretta tra le braccia conserte.

    La conclusione fa pandàn con quello che è stato detto prima, come un ritornello di un pezzo progressive, in cui il messaggio è sempre lo stesso, ma lo stile esecutivo è completamente diverso.

    Prima con le parole, le schematizzazioni, le definizioni. Poi, con l'altra cosa di cui l'uomo non può fare a meno. L'aria.

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  5. La mia guida.
    Il mio Cicerone.
    I miei binari da seguire, senza domande.

    Mio fratello.

    F.

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